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Super follow, contenuti premium e un po’ di Clubhouse. La rivoluzione di Twitter

Twitter

L’idea è permettere agli utenti di rilasciare contenuti “premium”, accessibili tramite abbonamento mensile. L’approccio potrebbe ridisegnare il rapporto Big Tech-società

Durante una presentazione a beneficio degli investitori, Twitter ha annunciato i suoi piani per il futuro. La piattaforma di microblogging, frequentatissima da politici e giornalisti, vuole ripensare i suoi servizi di base offrendo la possibilità ai suoi utenti più prolifici (e a sé stessa) di monetizzare i propri contenuti.

La nuova funzione è stata soprannominata “Super Follow”. In pratica un utente potrà decidere di rendere “premium” una parte dei propri contenuti – ad esempio thread, articoli, immagini, video, ma anche offerte e sconti – che saranno accessibili solo a coloro che pagheranno un abbonamento mensile. Un concetto ben rodato, come dimostra il successo di piattaforme come Patreon (o OnlyFans) che permettono ai fan di un creatore di sostenerlo direttamente. Anche Facebook e YouTube, peraltro, hanno introdotto meccanismi simili.

Non è ancora chiaro quanto di questi proventi finirà in tasca ai creatori, e quanto a Twitter. Non si sa nemmeno quando questa funzione sarà implementata (per ora è in fase di beta testing). Si sa, però, quali saranno le altre funzioni ad accompagnare questa spinta innovativa: “Revue” consentirà la pubblicazione di newsletter, gratis o a pagamento; nasceranno gruppi tematici (sulla falsariga di quelli di Facebook); sarà lanciato uno spazio per le conversazioni audio (rivale dell’apprezzatissima Clubhouse).

Per Twitter si tratta delle prime sostanziali novità dopo anni di navigazione in linea retta. Questa serie di aggiornamenti ha un doppio scopo: ampliare le capacità della piattaforma, per consentirle di competere meglio con i suoi dinamicissimi concorrenti, ed esplorare sistemi di monetizzazione alternativi alla pubblicità on-site, aggirando il duopolio pubblicitario Facebook-Google.

Il tempismo non è casuale: il caso Big Tech vs Australia è solo l’ultimo episodio di una lunga battaglia tra giganti della tecnologia e governi. La diffusione a macchia d’olio dei servizi che offrono i primi li rende sempre più insostituibili (specie durante una pandemia), ma le responsabilità sociali e finanziarie di questi servizi non sono cresciute di pari passo. Da qui la pressione sempre più alta da parte delle autorità.

Ad esempio, adesso Facebook e Google saranno costretti a pagare le notizie in Australia. Altre istituzioni (tra cui l’UE) stanno approntando misure simili. Twitter, però, si sta muovendo lateralmente, offrendo ai creatori di contenuti (tra cui spiccano i gli editori e i giornalisti, che tanto hanno patito la digitalizzazione) un canale di finanziamento diretto attraverso la piattaforma stessa.

L’idea di Twitter non è nuova, ma la piattaforma californiana è il principale punto di raccordo tra politici, giornalisti, figure pubbliche e utenti “comuni” (leggi: interessati). Lo spazio cibernetico perfetto per esaltare il valore delle notizie e combattere la convinzione, propria dell’era digitale, che non occorra pagare l’informazione di qualità, o almeno non direttamente. Il proliferare di fake news e il degradarsi della qualità del discorso pubblico sono correlate a questa mentalità, che fortunatamente pare essere in leggero declino.

Le potenziali conseguenze di questa idea sull’editoria sono immense. Gli editori potrebbero proporre i loro contenuti a pagamento direttamente sui social. I giornalisti potrebbero creare un filo diretto con gli utenti interessati ai loro contenuti, garantendosi una fonte di reddito alternativa. Sulla carta, si potrebbero consumare notizie in maniera simile alle serie tv, utilizzando canali a pagamento che fungono da aggregatori di ciò che ci interessa.

Gli esperimenti finora non sono stati fortunati. Emblematico fu il caso della partnership tra Facebook e il New York Times sulla condivisione degli introiti pubblicitari generati dalle notizie pubblicate sul social network. Progetto abbandonato dalla testata americana, che da quel momento ha puntato tutto sugli abbonamenti (in house e non attraverso i social) e ha macinato ricavi e nuovi iscritti. Non è chiaro se per l’editoria ci possa essere un “effetto Spotify”, la risposta tecnologica innovativa alla crisi della discografia. Le piattaforme musicali hanno creato un sistema legale ma garantiscono poche entrate ai musicisti, che ormai guadagnano soprattutto grazie a concerti ed eventi dal vivo.

Lo scenario dovrà tenere conto di algoritmi avversi, manipolatori di notizie, e anche del disinteresse del pubblico. Ma tant’è: Twitter vuole scommettere su, e farsi promotore di, pagamenti diretti.


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