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Tunisia, la crisi di un Paese tra democrazia e precipizio

Di Giacomo Fiaschi
tunisia

In dieci anni dalla rivoluzione molte cose sono cambiate in Tunisia. Oggi possiamo dire che esistono tutti gli elementi essenziali di una vera e propria democrazia, ma se non riesce a liberarsi delle scorie del passato, allora difficilmente potrà avere un futuro

Nel giro di una settimana si sono moltiplicate le iniziative diplomatiche che hanno visto impegnati in prima persona il presidente della repubblica Kaïs Saïed da una parte con gli ambasciatori dei paesi Ue, e dall’altra il presidente del parlamento Rachid Ghannouchi e il capo del governo Hichem Mechichi con l’ambasciatore americano.

In entrambi i casi lo scopo è stato quello di perorare la buona causa della transizione democratica della Tunisia, messa a rischio dagli effetti devastanti di una crisi economica senza precedenti ai quali si sono aggiunti quelli della pandemia.

Se qualcuno poteva avere dei dubbi sulle reali finalità di questi incontri, quello che ha avuto luogo alla fine della settimana, venerdì 26 febbraio, fra il capo del governo Mechichi e gli ambasciatori dei paesi del G7 ha chiarito in modo inequivocabile la situazione. In questa circostanza, infatti, Mechichi ha chiesto esplicitamente agli ambasciatori di intervenire presso le agenzie di rating per spiegare loro la situazione del paese chiedendo comprensione e sostegno. Tutto ciò all’indomani della pubblicazione da parte dell’agenzia Moody’s del declassamento, con outlook negativo, a B3 della Tunisia. Ovvero ad un passo dal precipizio in zona C, che comporterebbe il passaggio del Paese nel purgatorio del Club di Parigi e la successiva perdita di quel che ancora resta della sua sovranità.

È difficile dire quali saranno le reazioni delle istituzioni finanziarie internazionali, in primis quella del Fondo Monetario Internazionale FMI, che da oltre un anno sta inutilmente cercando di sollecitare il paese a mettere in atto quelle riforme sempre annunciate e sempre rimaste lettera morta.
Oggi la Tunisia si trova esposta al rischio concreto di perdere la propria autonomia e, con essa, quella democrazia che avrebbe dovuto farne il paese modello al quale si sarebbero dovuti ispirare i paesi arabi come alla possibile alternativa democratica alle monarchie saudite, alle repubbliche islamiche e alle dittature.

Se dieci anni fa fu relativamente facile impacchettare il presidente Ben Alì e spedirlo con viaggio di sola andata in Arabia Saudita dopo anni di inutili avvertimenti da parte di Bush prima e di Obama poi che gli avevano chiesto di piantarla con il riciclaggio, divenuto ormai parte integrante e core business dell’economia nazionale con la complicità di banca centrale, dogana, polizia di frontiera e magistratura, oggi dopo dieci anni durante i quali si sono alternati sette governi senza che nessuno di essi sia riuscito a fare pulizia a fondo del sistema, è impossibile una soluzione come quella del 14 Gennaio 2011, per replicare la quale non sarebbe sufficiente l’intera flotta della compagnia di bandiera, tanti sono i boss di quei gruppi familiari che continuano imperterriti a portare avanti, nel privato, l’opera statale rimasta incompiuta di Ben Alì e della famiglia Trabelsi che faceva capo alla sua consorte Leila.

In dieci anni dalla rivoluzione molte cose sono cambiate in Tunisia. Oggi possiamo dire che esistono tutti gli elementi essenziali di una vera e propria democrazia: elezioni libere, libertà di pensiero e di espressione, un parlamento titolare del potere legislativo, multipartitismo; di tutto ciò che serve per poter affermare che la democrazia esiste realmente, non manca nulla. Ma se questa democrazia non riesce a liberarsi delle scorie del passato, allora difficilmente potrà avere un futuro.

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