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Ecco perché gli Usa non lasceranno l’Afghanistan. Il commento del gen. Santo

Di Vincenzo Santo

La lettera di Tony Blinken al presidente Ghani, il tentativo di coinvolgere la Turchia e gli interessi di Russia e Cina. L’Afghanistan spiegato dal generale Vincenzo Santo

È sempre complicato capire cosa ci sia esattamente nella testa delle persone, figurarsi in quelle di coloro che si occupano di “interessi nazionali”. Le analisi geopolitiche sono soggettive pur partendo da elementi oggettivi declinati dalle “geografie”. Quindi, si va per supposizioni, per assunti. Anche con scetticismo. E io sull’argomento sono decisamente scettico. Il segretario di Stato americano, Tony Blinken, ha scritto ad Ashraf Ghani, presidente in Kabul. Vediamo di capirne il perché.

Tanto per iniziare è “irrituale” che un pur rispettabile segretario di Stato si rivolga a un personaggio che in effetti riveste un ruolo superiore, quello di capo di uno Stato che, con tutto l’impegno di questo mondo per convincercene, riteniamo comunque sovrano. Questione di stile, indubbiamente. Ma, nella sostanza, pur considerandolo un passo diplomatico volto a far apparire le posizioni americane più chiare, almeno in linea teorica, dopo gli ultimi tentennamenti, il senso pratico sta nella volontà di tastare, nella certezza di trovare il vuoto, il polso degli altri, senza compromettere il commander in chief, Joe Biden. Quindi, rilevando l’indifferenza degli altri, giustificare la propria inevitabile permanenza. Questo è il vero punto.

L’urgenza rimarcata nella lettera sta proprio e solo nell’impellenza di confermare, anche agli alleati, la propria permanenza al di là di quanto convenuto ai tempi di Donald Trump. Sì, l’ho detto, sono scettico; non ho mai creduto nel ritiro americano. Il quadro che mi sono fatto, infatti, propende per la prosecuzione della solita strategia, quella dell’instabilità, già in atto a seguito del fallimento dei rinnovati sforzi di Barack Obama del 2012, con il suo famoso “surge”. E allorquando tanto la Cina quanto la Russia iniziavano a risollevare la testa in un mondo dove fino ad allora gli americani si erano abituati a vivere “da soli”. Cose non trascurabili.

Ora, in poche parole, questa nuova amministrazione non sa ancora come uscire dall’impasse generato da Trump stesso, il quale dispose, utopisticamente, il termine delle avventure militari americane, inclusa quella in Afghanistan.

“The Donald” aveva da subito manifestato poca simpatia per questi impegni. Persino la Nato e i suoi alleati sono stati oggetto di violenti attacchi per il loro irrilevante contributo economico. Scarsa è sempre stata la sua passione per i nobili principi di diffusione della democrazia, tanto meno per via militare.

Lettera irrituale, dicevo. Ma sta nell’impronta “imperialista” di cui gli americani ancora soffrono e che li obbliga a vivere con i paradossi che loro stessi generano. Persino per mano degli stessi presidenti che si avvicendano i quali, laddove mossi dalle passioni, come del resto Trump stesso, offrono al mondo interpretazioni differenti di come la presenza globale Usa debba essere “utilizzata”. Generando confusione e ambiguità.

E, quindi, ora che fare? Nella sua lettera, cosa ben più rilevante del resto, Blinken illustra iniziative diplomatiche che si intende promuovere nei prossimi mesi per mantenere il passo con un processo di pace visibilmente traballante. Viene ancora mantenuta l’opzione di ritirare tutti i militari statunitensi entro il  primo maggio ed emerge un coinvolgimento “inspiegabile” della Turchia, alla quale viene chiesto di “ospitare” una riunione tra le due parti, governo e talebani, ad alto livello.

Perché non più Doha, in Qatar? Semplicemente per far giocare sì, ma fuori casa, Teheran, altro invitato di lusso nel dossier, ma troppo simpatico ai qatarini. E forse anche per richiamare più benevolmente a sé un alleato recalcitrante a ogni “imposizione”. Tuttavia, e questo gli americani lo pensano, c’è anche da sottolineare l’importanza di Ankara nella faccenda, per via della sua non tanto nascosta vicinanza ai talebani.

Lo si è capito anche da piccoli dettagli colti dal sottoscritto durante la sua presenza in Afghanistan, ma si sa che nei dettagli si nasconde il diavolo. Per esempio, il fatto che fossero gli unici che girassero con le auto commerciali con la bandierina ben visibile sul parabrezza dei loro mezzi e che il loro compound fosse di maggiore libero accesso ai civili per l’assistenza sanitaria. Piccoli stratagemmi per rendersi riconoscibili e intoccabili. Fa parte del gioco, pulito o sporco che sia, non li biasimo. I turchi hanno strizzato più di un occhio all’Isis in Siria, perché non avrebbero dovuto farlo anche con i talebani a Kabul?

Si ammetta pure che gli Usa vogliano realmente “uscire”. Di certo, io dico, non vogliono “andarsene”. Non per ora, comunque. L’alto valore geostrategico dell’Afghanistan, considerate le tensioni con Pechino, Mosca e Teheran e le grandi e appetibili risorse minerarie del territorio, è indubbio. E far vedere al mondo la volontà di coinvolgere altri attori nel processo di pace non costa nulla. Si parla di Russia, Cina, Pakistan, India e dello stesso Iran, oltre alle Nazioni Unite. Una mossa intelligente. Vendersi come nazione responsabile nel non voler lasciare nulla di incompiuto e nell’appellarsi alla comunità internazionale, e ai vicini che contano, per condividere gli oneri per conseguire stabilità e avviare una ricostruzione, di fatto, mai iniziata, ha un grande valore in termini di immagine. Magari, diciamolo, sotto sotto esiste anche il desiderio di scrollarsi di dosso la responsabilità morale di aver condotto una campagna militare dando nessuno spazio, se non di facciata, a Nato e alleati, ridicole comparse nella condotta di operazioni di cui non conoscevano le reali linee strategiche, e ora di un processo forzatamente mirato a riconoscere come legittimi antagonisti una masnada di assassini, pronti a rimangiarsi tutto il giorno dopo con una “loro” pace.

Già, la Nato. Do una notizia, non prendiamoci in giro, l’Alleanza in Afghanistan, di fatto, non conta nulla, l’operazione è esclusivamente americana. Sarà per questo motivo che Blinken ha escluso dal processo gli altri alleati che vi partecipano, come per esempio l’Italia. Insomma, io propendo decisamente per una sapiente messinscena.

Eppure, è vero, molti lo dicono, dal Vietnam a un certo momento gli americani se ne andarono via. Certo, ma ormai un baluardo all’espansionismo sovietico era già stato trovato, ed era proprio Pechino, con cui la diplomazia del ping-pong si era consolidata. Sono le cose pazze della storia. Però, in questo quadrante, ora, le cose stanno diversamente.

Un bel grattacapo per Biden, che dovrà probabilmente riacciuffare per i capelli la strategia dell’instabilità, cui ho fatto cenno prima, e che ad oggi ha guidato gli Stati Uniti in un’area dove confluiscono tensioni strategiche mosse da competitori molto più irriguardosi e intraprendenti. Io dubito nel successo di questa “chiamata a raccolta”. Penso che non ci credano neanche a Washington. Gli altri? Diciamo che nel soppesare i pro e i contro della presenza americana nel Paese, ad alcuni può far comodo che gli Usa rimangano a dissanguarsi, come Russia o Cina, preoccupati che l’instabilità non si propaghi rispettivamente nell’Asia Centrale e nello Xinjiang. Ad altri un bel po’ meno, come Teheran, che si sentirebbe ad ogni modo pericolosamente circondata da un ingombrante apparato militare, a pochissime ore di volo. Comunque, li vedo tutti poco propensi a farsi seriamente imbrigliare in quel ginepraio. Figurarsi a prendersi carico della stabilità di un Paese distrutto, al di là degli slogan che si lanciano inneggiando ai successi sociali.

La primavera si avvicina. Con essa la consueta ripresa delle attività militari da parte talebana, con la prevedibile impennata nelle violenze. Forse, la lettera di Blinken mirerebbe anche a “limitare” i danni, prendendo altro tempo per acquietare gli animi degli alleati. Ma riconosce, passaggio importante, che con la sola assistenza finanziaria Usa, dopo l’eventuale ritiro, il rischio che i talebani consolidino ed estendano il controllo del territorio sia molto elevato. Consapevolezza di un governo, quello di Kabul, che non riuscirebbe a stare in piedi da solo, ma anche un’apertura per rincuorarlo sul fatto che gli americani non se andrebbero via a cuor leggero.

Un messaggio che tradisce quindi l’intento di volersi muovere solo sulla base di quello che accade sul terreno, quasi nella certezza (speranza?) che i talebani non si piegheranno a un ulteriore periodo di “riduzione della violenza”. Il famoso condition-based approach, insomma. Un composto concettuale difficile da rendere in termini di obiettività. Ma in questi affari l’obiettività diviene flessibile, si sa. E rischia ancora di esserlo, come è sempre stato sin dalla medesima illusione che ne ebbe Obama. Infatti, non funzionò; le condizioni non si sono mai realizzate. E sono ancora lì. Rebus sic stantibus, gli americani non se ne andranno presto e, comunque, non tutti. Scetticismo fuori posto? Forse.

 


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