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Salvini può cavalcare (o soffrire) il partito di Draghi. Alli spiega perché

Matteo Salvini e la Lega possono cavalcare il “partito di Draghi” o rimanerne schiacciati. Il cuore di questa partita si gioca a Bruxelles. Dove sta prendendo vita l’idea malsana di un gruppo unico sovranista che consegnerebbe di nuovo il Carroccio all’irrilevanza in Ue. Il commento di Paolo Alli, nonresident Senior fellow dell’Atlantic Council, già presidente dell’Assemblea Parlamentare della Nato

Con la nascita del governo Draghi, Matteo Salvini, abilissimo a leggere i cambi di umore dell’opinione pubblica, ha capito che gli italiani, provati dalla tragedia del Covid, chiedevano moderazione, competenza e sicurezza al potere.

Orfano del suo cavallo di battaglia, l’immigrazione, il leader leghista aveva seguito – credo più per convinzione che per convenienza – la pista della moderazione tracciata da Giancarlo Giorgetti, il quale nel frattempo si era accomodato alla destra del nuovo premier, sconvolgendo così gli equilibri del centrodestra italiano e suscitando attenzioni in Europa.

Nelle settimane successive, tuttavia, abbiamo assistito ad una serie di stop-and-go e di evoluzioni/involuzioni da parte di un Salvini apparso piuttosto nervoso, che ci restituiscono un panorama ingarbugliato e di (apparentemente) difficile lettura.

In realtà è abbastanza chiaro cosa è accaduto e cosa sta accadendo. L’ala dura della Lega ha reagito male e, a Bruxelles, l’uscita degli europarlamentari di Orban dal gruppo del Ppe ha introdotto un nuovo elemento di forte perturbazione negli equilibri politici.

Da parte sua, l’ex presidente della Bce, preso possesso di Palazzo Chigi, non solo ha imposto uno stile sobrio, contrapposto in modo stridente ai contratti con gli italiani di Berlusconi, alle rottamazioni di Renzi, ai vaffa di Grillo e alle comparsate televisive di Conte, ma ha cominciato ad occupare uno spazio politico contiguo e perfino sovrapposto a quello salviniano.

Ha infatti assestato un paio di colpi in pura chiave “Italy first”, grazie alla sua autorevolezza internazionale. Ha alzato il telefono annunciando ad Ursula Von der Leyen che bloccava 250.000 vaccini prodotti in Italia e destinati all’export in Australia e ponendo pesantemente il tema delle quote di ripartizione dei migranti. Subito Salvini ha twittato “prima gli italiani”, ma Draghi gli aveva ormai scippato il copyright.

Il leader della Lega si trova, quindi, stretto tra la necessità di tenere insieme il suo mondo e di non farsi “assorbire” dal professore: questo, a mio parere, giustifica le sue reazioni degli ultimi giorni.

Draghi piace all’estero e piace agli italiani, basta uscire dal mondo totalmente autoreferenziale dei partiti e del parlamento italiano per rendersene conto. L’autorevolezza del premier sta preoccupando molto i vari leader nostrani, certamente non solo la Meloni, che non ha mai nascosto la propria avversità al Professore.

Tutto questo è destinato ad influenzare gli scenari politici italiani in modo più profondo di quanto si possa credere, riportando in voga un’idea positiva di politica, che antepone la cura della polis, della casa comune, alle alchimie partitiche, romane o locali che siano.

Se questo processo continuerà, il governo Draghi potrebbe non costituire una semplice transizione, più o meno lunga, verso il ripristino delle condizioni ex ante. I leader dei vari partiti compulsano i sondaggi e aspettano le elezioni che restituiranno, prima o poi, la parola al popolo sovrano, ma sono consapevoli che, quando ciò accadrà, il popolo potrebbe avere cambiato completamente idea nei loro stessi confronti.

Un partito di Draghi? Probabilmente il professore, che è un saggio, è il primo a non volerlo, ma tutto sembra andare in questa direzione: i problemi ormai strutturali del Pd, l’incapacità di Salvini di stare fermo su una posizione, l’inesistenza del “centro”, l’implosione dei 5 stelle, i ripetuti suicidi politici di Renzi, le isterie della Meloni sono ingredienti che, messi in uno shaker, possono creare un cocktail dove colori e sapori si mescolano in modo imprevedibile.

Draghi Presidente della Repubblica, un partito “draghiano” del 30%, Giorgetti primo ministro: fantasia? Vedremo.

Oggi è proprio Salvini che ha in mano la chiave per disinnescare – o favorire – questo processo. Il suo successo dipenderà dalla capacità di mantenersi lucido e di non ascoltare i cattivi consiglieri che lo provocano continuamente, facendogli anche notare malignamente che Draghi parla solo con Giorgetti.

Dovrebbe riflettere su un fatto molto chiaro: aveva senz’altro messo in conto che la Lega perdesse consensi in modo anche rilevante a seguito della sua scelta di sostenere Draghi, convinto in questo anche dalla emorragia di parlamentari e amministratori locali spostatisi verso Fratelli d’Italia.

Ha dovuto invece constatare che i suoi elettori, non avendo poltrone proprie da difendere alle prossime elezioni, hanno premiato la sua scelta, consolidandone, almeno per ora, la leadership nei sondaggi. Questo dovrebbe fargli tenere la barra dritta nella direzione intrapresa, anziché inseguire questo o quel refolo di vento come sembra aver fatto negli ultimi tempi.

Su tutto, l’idea balzana e velleitaria di un nuovo gruppo a Bruxelles con il peggio del populismo illiberale che, tra gli stessi europarlamentari leghisti, piace solo all’ex grillino Marco Zanni, desideroso di conservare la propria poltrona di capogruppo. Una ipotesi, se mai si realizzerà, destinata a consegnare nuovamente la Lega alla irrilevanza in Europa, proprio nel momento in cui si apriva la strada maestra del dialogo col Ppe (peraltro da tempo iniziato, per quanto sottotraccia).

Se il capo della Lega non continuerà sulla via maestra, imboccata solo un mese fa, saranno i suoi elettori a fargli pagare un conto salato, spianando definitivamente la strada al partito di Draghi.

Il problema di Salvini sta nei due grossi ostacoli ai quali si trova di fronte: la pancia dell’elettorato leghista duro e puro, e se stesso. E sono entrambi soggetti piuttosto complicati.

Forse il leader leghista sta cercando di mantenere gli equilibri interni, attuando la tattica dell’elastico, nella quale Umberto Bossi era maestro inarrivabile. Del resto, quando chiesi allo stesso Bossi, qualche anno fa, cosa pensasse del rampante Matteo, l’Umberto mi rispose: “Il ragazzo si farà…”. E aveva pure ragione.

Se invece Salvini, molto più semplicemente, non sta riuscendo a vincere la battaglia con se stesso, questo potrebbe significare, per dirla con Berlusconi, che non ha il quid.

Ai posteri – e a Draghi – la sentenza.



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