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Transizione ecologica. Il peso dei rifiuti radioattivi e la strada del buon ambientalismo

Di Nunzio Ingiusto

L’Italia segna un ritardo sull’accordo per smaltire in un Paese europeo i residui più radioattivi oltre che sulla necessità di tracciare ogni tipo di scorie. La scelta del sito per il deposito nazionale deve entrare in uno schema culturale di autentica sostenibilità senza pregiudizi e sovrastrutture ideologiche. Una partita che il buon ambientalismo deve saper giocare, per non cadere nei tranelli di una illusoria decrescita felice

La visione ecologica (futura) dell’Italia cammina. Se ha il passo giusto per fare il salto di qualità lo vedremo presto. Conforta che la macchina sia in mani affidabili e che il ministero della Transizione ecologica stia lavorando in silenzio. Ma l’attenzione generale sul tema e il richiamo della politica (toh!) per un Paese green, davvero ci accomuna tutti?

Le sensibilità che accompagnano il cammino non mancano e registriamo che in Parlamento sta per nascere un nuovo partito dei Verdi. Ciò che ancora non si avverte è una visione nitida dell’orizzonte sostenibile verso cui si marcia. Da questo versante la calma con la quale lavora il ministro Roberto Cingolani può essere un buon auspicio. Fare i conti con un passato segnato da petrolio, gas, inquinamenti, smog, sfracelli ambientali non è facile. C’è un che di azzardato, a mio parere, sentir dire che ormai ci siamo, la svolta della sostenibilità è a portata di mano, che spenderemo bene i soldi dell’Europa e siamo pronti per mettere a posto tutto il pregresso.

In tema di energia l’Italia ha avuto molte fasi, finché la curva dei bisogni per illuminarsi, mangiare, scaldarsi, viaggiare non si è stabilizzata intorno alle fonti fossili. Come in tutto il mondo, del resto. Forse proprio all’indirizzo di chi crede che tutto è fatto, Legambiente l’altro giorno ha ricordato che il Paese – tra tante falle – è ancora pieno di rifiuti radioattivi. Non riesce a liberarsi di un fardello tecnologico, un sogno fallito sotto il peso di scelte opposte all’energia nucleare. Quella prospettiva di autosufficienza energetica pensata da strateghi di 50 anni fa, sopravvive in fusti pericolosi giacenti in diversi posti del Paese.

Come fulmini, ogni tanto brilla nel cielo della politica il tema del deposito nazionale dei rifiuti, che puntualmente nessuno vuole. Ma sul terreno – sebbene ben custoditi – ci sono 31mila metri cubi di rifiuti in 24 impianti distribuiti su 16 siti in 8 Regioni. Dati ufficiali al 2019, ma in crescita, giacché – riferisce l’Ansa – a questi nel prossimo futuro “andranno aggiunti i rifiuti radioattivi ad alta attività che torneranno in Italia dopo il ritrattamento all’estero del combustibile esausto proveniente dagli ex impianti nucleari”. E non è tutto. Poiché la società pubblica Sogin sta lavorando allo smantellamento delle vecchie centrali, bisognerà fare i conti anche con i rifiuti di media attività radioattiva. Può andare avanti in tranquillità una transizione “eco” con un peso di simili dimensioni? Lungo quel cammino di cui si diceva bisognerà trovare uno spazio adeguato a risolvere definitivamente il problema. Perché no, studiando quello che hanno fatto o intendono fare altri Paesi.

L’ansia collettiva italiana cresce quando si squarcia il velo del traffico illecito di questi rifiuti. In quattro anni (2015 – 2019) i carabinieri hanno fatto centinaia di controlli, denunciato 29 persone, arrestate 5, sequestrato 15 aree. Uno spaccato inquietante laddove la gente vive a contatto con siti inidonei e pericolosi che favoriscono la criminalità. Il deposito nazionale per i residui a media e bassa attività, trasparente, condiviso, concertato con i territori , incubatore anche di posti di lavoro, è la soluzione radicale al problema.

L’Italia segna un ritardo sull’accordo per smaltire in un Paese europeo i residui più radioattivi oltre che sulla necessità di tracciare ogni tipo di scorie. Deve essere chiaro, tuttavia, che anche la scelta del sito per il deposito nazionale deve entrare in uno schema culturale di autentica sostenibilità senza pregiudizi e sovrastrutture ideologiche. Una partita che il buon ambientalismo deve saper giocare, per non cadere nei tranelli di una illusoria decrescita felice.

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