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Riflettori sull’export militare. Ma chi vende (davvero) armi all’Arabia Saudita?

Tornano ad accendersi i riflettori sulle vendite militari all’Arabia Saudita. In realtà, il dibattito italiano è inserito in un quadro più ampio, che da anni coinvolge i Paesi occidentali in riflessioni sul futuro dell’export militare un po’ in tutto il Medio Oriente. Ma chi vende davvero armi a Riad? E soprattutto, se l’Occidente dovesse fermare tutto il suo export, a chi guarderebbero i sauditi?

Non è solo italiano il dibattito sull’export militare all’Arabia Saudita. Sin dall’ottobre del 2018, cioè dal brutale assassinio di Jamal Khashoggi, sono molti i Paesi occidentali puntualmente attraversati da polemiche sulle vendite di sistemi d’arma a Riad, complice il perdurarsi dell’intricato e sanguinoso conflitto in Yemen. In questi giorni i riflettori della stampa nazionale si sono accesi sull’export italiano degli ultimi anni, proprio mentre oltreoceano (negli Stati Uniti) si rinvigoriscono le posizioni a favore di una postura più rigida dopo la decisione con cui Joe Biden ha congelato, a inizio febbraio, nuove vendite a Riad (e Abu Dhabi). Ma chi vende oggi armi all’Arabia Saudita?

LA SITUAZIONE

La fonte più autorevole sulle movimentazioni di sistemi d’arma è il think tank svedese Sipri. Tra pochi giorni rilascerà l’annuale report sulle vendite internazionali, ma intanto restano validi i dati rilasciati lo scorso anno. Collocano l’Arabia Saudita al primo posto tra gli importatori globali, con un aumento degli acquisti del 130% nel periodo 2015-2019 rispetto al quadriennio precedente. L’import saudita copre il 12% dell’import globale di armamenti, ben superiore al 9,2% coperto dall’India (al secondo posto). L’alta domanda di materiali d’arma è soddisfatta per il 73% dagli Stati Uniti, seguiti dal Regno Unito (13%) e dalla Francia (4,3%). Agli altri restano quote minori.

PERCHÈ L’ARABIA SAUDITA COMPRA ARMI

A livello di spese per la Difesa, con 61,9 miliardi di dollari nel 2019 l’Arabia Saudita è al quarto posto globale dopo Stati Uniti, Cina e India. Ha perso in un anno il 16% del budget militare, un passo indietro giudicato dallo stesso Sipri “inaspettato”, considerando l’accresciuto ruolo regionale tra il coinvolgimento nel perdurante conflitto in Yemen e la ompetizione con l’Iran. Sono d’altra parte questi due elementi ad aver alimentato le ambizioni militari saudite negli ultimi anni (tradottesi in un +14% nel budget militare tra 2010 e 2019). Eppure, a ben guardare, la spesa saudita è sempre stato molto oscillante, legata alle disponibilità delle casse reali e dunque, soprattutto, al petrolio.

LA VISIONE DI RIAD

La connessione tra capacità di spesa e idrocarburi è tanto forte (e fastidiosa), che già nel 2018 l’erede al trono Mohammed Bin Salman presentava la sua Vision 2030 con l’obiettivo di sviluppare per intero il comparto industriale nazionale (slegandosi dall’export e dalla dipendenza dal petrolio). Nel dettaglio, si punta a localizzare il 50% delle spese militari sul territorio nazionale, attraverso la creazione di un’industria bellica nazionale, l’acquisizione di competenze e di risorse umane, e una pianificazione economica più efficiente. Meno di due settimane fa, il governo di Riad ha annunciato un ulteriore tassello: lo stop, dal 2024, a contratti con aziende straniere che non prevedano ritorni occupazionali e industriali sul territorio nazionale. Dimostra l’intenzione saudita di slegarsi dalla dipendenza dall’export, anche in campo militare, ma non certo la volontà di fermare l’ammodernamento delle varie componenti della Difesa nazionale.

LE POLEMICHE

Per ora, tuttavia, la dipendenza dall’export rimane, e anche piuttosto forte. Da almeno tre anni essa si è progressivamente intrecciata con il dibattito interno ai vari Paesi esportatori. Le immagini del brutale conflitto in Yemen, e poi, a ottobre del 2018, l’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, hanno alimentato puntuali polemiche un po’ ovunque, dalla Germania agli Stati Uniti, passando anche dall’Italia (qui la puntata recente). Annunci di stop dai governi occidentali sono giunti a più riprese, poi tuttavia superati dai fatti.

IL DIBATTITO EUROPEO…

Già a ottobre 2018 Berlino annunciava la sospensione delle vendite militari a Riad. Il giugno successivo, però, il ministero dell’Economia rendeva note vendite di materiali per la difesa per 1,1 miliardi di euro a diversi Paesi coinvolti nel conflitto in Yemen, solo nei primi sei mesi del 2019, perfino all’Arabia Saudita. Quello stesso giugno, anche il Regno Uniti bloccava nuove vendite a Riad, salvo poi registrare nel corso dell’anno una quota del 41% del proprio export militare coperto dal Regno saudita. Meno oscillante è apparsa la Francia, tradizionalmente più realista (e con meno peli sullo stomaco), quando si parla di export militare. Secondo l’ultimo report sulle vendite globali di materiali d’arma dell’autorevole istituto svedese Sipri, le esportazioni transalpine sono cresciute del 72% nel quinquennio 2015-2019 rispetto ai cinque anni precedenti. L’incremento è ancora più consistente per il Medio Oriente, dove le vendite francesi sono aumentate del 363%, tanto che la regione oggi assorbe oggi il 52% dell’export d’oltralpe.

…E QUELLO AMERICANO

Negli Stati Uniti, nel corso dei quattro anni targati Donald Trump, il partito democratico ha criticato con una certa costanza le vendite militari verso i Paesi coinvolti nel conflitto yemenita. A inizio febbraio, Joe Biden ha deciso di stoppare le procedure in corso su nuove vendite ad Arabia Saudita ed Emirati, compreso il maxi accordo per gli F-35 destinati ad Abu Dhabi. Il segretario di Stato Anthony Blinken ha subito specificato che “è tipico all’inizio di una nuova amministrazione rivedere qualsiasi vendita di armi in sospeso”. D’altronde, è difficile immaginare che Washington voglia privarsi in modo permanente di una leva importante della sua postura mediorientale. Eppure, il dibattito negli Stati Uniti è ormai partito. A inizio febbraio, Bruce Riede, senior fellow di Brookings Institution, spiegava che “It’s time to stop US arms sales to Saudi Arabia”. Oggi, sulle colonne di Defense News, l’esperto Luke Nicastro rilancia: “It’s time to rethink foreign military sale”.

MA COSA FARÀ L’ARABIA SAUDITA?

Il dibattito è destinato a proseguire, ed è probabile che con la presidenza Biden trovi una sua strutturazione più definita sulla spinta delle sollecitazioni del Congresso. Oltre le posizioni ideologiche, pare legittimo l’auspicio per cui, vedendosi stoppare l’export da più parti, Riad modifichi il proprio atteggiamento nella guerra in Yemen, e magari aumenti l’attenzione al rispetto dei diritti umani. L’auspicio si accompagna però a un interrogativo: e se invece il Regno decidesse di rivolgersi ad altri, già pronti con la mano tesa (e senza le puntualizzazioni occidentali) a vendere i propri sistemi d’arma? In questo caso, l’Arabia Saudita avrebbe comunque le sue armi, mentre i vecchi esportatori perderebbero un’utile strumento di politica estera, soprattutto nei confronti della stessa Riad.

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