La telefonata Kerry-Cingolani? Un segnale importante, dice Ermete Realacci, presidente di Symbola. Che parla della proposta di uno ”special enovy” climatico italiano ed europeo e avverte: bisogna sburocratizzare di corsa, altrimenti…
È ottimista Ermete Realacci, padre nobile dei Verdi in Italia, già deputato dell’Ulivo e del Partito democratico, oggi alla guida di Symbola, la Fondazione per le qualità italiane. Raggiunto telefonicamente da Formiche.net sottolinea l’importanza di un multilateralismo ritrovato, anche sul piano ambientale. E l’Italia è in prima linea, come dimostra la telefonata di questa settimana tra John Kerry, l’inviato speciale per il clima del presidente statunitense Joe Biden, e Roberto Cingolani, ministro per la Transizione ecologica del governo guidato da Mario Draghi.
Che segnale è arrivato da Washington?
Sicuramente positivo, di attenzione verso il nostro Paese. Non dimentichiamo che Kerry, che gode anche di un ottimo rapporto personale con il commissario europeo Paolo Gentiloni, è molto legato all’Italia.
Kerry, che – aspetto affatto secondario – è anche membro del Consiglio per la sicurezza nazionale alla Casa Bianca, fu fondamentale nell’accordo di Parigi del 2015.
Io c’ero e lo ricordo bene. Il fatto che Biden abbia scelto lui per quell’incarico è una garanzia dell’impegno degli Stati Uniti versa una direzione precisa. Ma anche verso la ricostruzione di un asse atlantico che con Donald Trump si era indebolito.
A parte l’andirivieni statunitense, che cos’è cambiato dal 2015?
Si sono rafforzati l’interesse e l’impegno da parte del settore economico. Cito un caso esemplare: un fondo del calibro di BlackRock, che amministra un patrimonio che vale quattro volte il prodotto interno lordo del nostro Paese, ha deciso di impegnarsi in investimenti sostenibili in linea con gli sforzi globali per raggiungere le zero emissioni nette di gas a effetto serra entro il 2050. È una spinta notevole. L’America è una metafora di questo cambiamento.
In che senso?
La campagna presidenziale di Trump nel 2016 aveva due feticci, due slogan con cui teneva banco: il muro con il Messico e il carbone americano. Hanno funzionato elettoralmente ma non nell’economia. Il consumo di carbone è continuato a calare nonostante le misure a sostegno di quell’economia messe in campo dall’amministrazione. Sempre più pezzi dell’economia hanno capito che la transizione ecologica non soltanto fa bene, ma conviene anche. E in questo senso noi abbiamo un’occasione unica con il Recovery fund, che è una spinta economica ma anche geopolitica.
A tal proposito, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha suggerito nel corso di una recente intervista ad Avvenire che “l’Italia dovrebbe avere un inviato speciale per il clima” proprio come Kerry per Biden. È la strada giusta?
Sicuramente la direzione è positiva. Ma ci sono alcune controindicazioni, a partire dalle differenze tra i due sistemi istituzionali. Il segnale italiano nella giusta direzione è Draghi, che è 100% italiano ma anche 100% europeo. Il suo discorso di insediamento al Senato ha rappresentato un importante passo avanti per la politica italiana.
Ci spieghi meglio.
Il nostro Paese non è affatto indietro a livello economico. È il dibattito politico a essere indietrissimo: gioca questa partita su categorie molto vecchie. Nel discorso di Draghi, invece, veniva letta non soltanto nella chiave della necessità ma anche in quella dell’opportunità, come abbiamo spiegato nel Manifesto di Assisi.
Anche Manfred Weber, capogruppo del Partito popolare europeo al Parlamento europeo, ha suggerito l’istituzione di un inviato sul clima, in questo caso nella Commissione europea.
Ma c’è il vicepresidente Frans Timmermans, che ha proprio quelle deleghe. Non vorrei fosse una questione di sgambetti politici.
Nei giorni scorsi il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione che propone l’introduzione di un Meccanismo di aggiustamento del carbonio alla frontiera. È la direzione giusta?
La cosiddetta Carbon border tax apre a ragionamenti con Paesi emergenti e con la Cina: aiuta le politiche ambientali ma anche quelle sociali. Per esempio, passare da lì a parlare di diritti è facile. E potrebbe essere anche un’occasione per rafforzare i rapporti e la collaborazione con gli Stati Uniti.
Per concludere, torniamo all’Italia, quest’anno in prima linea nella sfida ambientale. Oltre a presiedere il G20, il nostro Paese co-organizza, assieme al Regno Unito, la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop26). Ma siamo pronti? Edo Ronchi, già ministro dell’Ambiente oggi presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, durante un recente webinar di Formiche.net ha sottolineato che “non esiste presentarsi a Glasgow da organizzatori senza aver fatto i compiti”.
Dipende da quale Italia. Non siamo pronti per quanto riguarda le politiche in cui l’elemento politico è determinante: basti pesante all’economia circolare, settore in cui siamo una superpotenza europea ma che è appesantito dai ritardi della burocrazia. La cosa diventa ancora più pesante se guardiamo alla produzione energetica: chiuderemo entro il 2025 tutti gli impianti a carbone ma rispetto agli obiettivi che ci siamo dati siamo mostruosamente indietro.
Come mai?
Perché realizzare un impianto rinnovabile in Italia è un percorso kafkiano. Per un’autorizzazione di un impianto eolico, se e quando arriva, ci vogliono cinque anni. E se non cambiamo questa dinamica siamo fuori, anche dal Recovery fund, che prevede che i lavori comincino entro due anni e si concludano in sei.