Skip to main content

Cosa c’è dietro la Cina-Iran connection? Scrive Jacopo Scita

Di Jacopo Scita

Perché Cina e Iran si stanno cercando? Cosa c’è dietro l’accordo strategico fra i due Paesi? L’intesa non è una vera e propria svolta. Ma merita la nostra attenzione, per due motivi. L’analisi di Jacopo Scita (School of Government and International Affairs della Durham University)

È cosa nota che nella politica internazionale, forse ancor più che in quella domestica, simboli e messaggi hanno un ruolo di primordine, anche e soprattutto quando la sostanza è deficitaria. Il 27 marzo 2021, in occasione del gran tour mediorientale del ministro degli esteri Wang Yi, Cina e Iran hanno firmato l’accordo di cooperazione venticinquennale di cui raccontammo su Formiche lo scorso luglio.

A dire il vero – o a voler parlare della sostanza – l’accordo firmato sembra essere molto meno importante della fanfara che ha generato soprattutto in Occidente: segno che, almeno a livello di simboli e messaggi, un certo successo lo ha avuto. Innanzitutto, come confermato da Reza Zabib, responsabile del dossier Asia Orientale al Ministero degli esteri iraniano, il documento non ha la forma di un accordo vincolante, ma quella di una road map che delinea ambiti e ambizioni per il prossimo quarto di secolo di cooperazione. Una linea guida, dunque, che assicura all’Iran nulla o poco più rispetto a quanto costruito nell’ultimo mezzo secolo.

Infatti, sempre a proposito di simbologia, la firma dell’accordo per elevare le relazioni tra Pechino e Tehran al livello di Comprehensive strategic partnership (Csp), arrivata cinque anni dopo che Xi Jinping e Hassan Rouhani lo avevano presentato a Teheran, è in rimarchevole sincronia con le celebrazioni per il cinquantenario delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi, iniziate nel 1971 e sopravvissute alla Rivoluzione islamica del settantanove. In effetti, in 50 anni di cooperazione, Cina e Iran si sono costruite una storia di rapporti e interazioni complessa ma, paradossalmente, di impressionante costanza.

Perché anche nel saliscendi frenetico delle montagne russe c’è un’effettiva costanza. I due Paesi, negli anni, hanno basato gran parte delle proprie relazioni sull’incontro di domanda e offerta energetica, con Pechino che dagli anni ’90 è divenuto importatore netto di petrolio.

Ridurre questa partnership al solo settore energetico, tuttavia, è estremamente riduttivo. La saldatura, mai del tutto completata ma allo stesso tempo mai del tutto interrotta, tra la Cina e l’Iran ha portato i due paesi a cooperare in settori strategici come quello dell’energia nucleare e della difesa, così come a sviluppare una certa affinità politica, almeno ideale, intorno all’insofferenza verso l’egemonia di Washington.

Ed è proprio in questo contesto dove i saliscendi di una saldatura mai completata si sono dimostrati in modo più chiaro. La Cina continua a supportare il Jcpoa, accordo per il quale ha speso considerabile capitela diplomatico durante le negoziazioni, opponendosi alle sanzioni unilaterali statunitensi.

Tuttavia, Pechino ha votato tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che tra il 2006 e il 2010 che imposero il regime sanzionatorio che fece da prodromo all’accordo del 2015. La Cina, dunque, è per l’Iran quel partner che continua ad acquistare petrolio nonostante le sanzioni, ma che tende, comprensibilmente nella logica di una triangolazione in cui due la barra della forza è sbilanciata nettamente verso due dei tre vertici, a dare priorità alle relazioni con gli Stati Uniti quando questo è più conveniente. Anche a costo di scaricare Teheran.

Dunque, l’accordo appena firmato non rappresenta una svolta storica nel rapporto tra i due paesi. Piuttosto riflette, con impeccabile coerenza, il tentativo, soprattutto da parte iraniana ma in parte anche cinese, di caricare di significato politico l’ennesimo tentativo di completare quella saldatura di cui si è detto. O almeno di dare l’impressione che i saldatori stiano facendo un ottimo lavoro.

Si tratta, quindi, di un accordo che non merita attenzione? No, tutt’altro e per almeno un paio di motivi. Prima di tutto, allargando il campo visivo, non si può non notare che il fatto che l’Iran voglia avvicinarsi alla Cina – e che in Pechino cerchi immediato capitale politico – è espressione coerente di un movimento tellurico regionale.

Negli ultimi dieci anni la Cina ha progressivamente cresciuto la propria impronta nel Golfo Persico, costruendo partnership con i principali attori della regione. Per esempio, ed è notizia a oggi ben più fondamentale di quella dell’accordo qui descritto, ad Abu Dhabi si comincerà produrre il vaccino cinese sviluppato da Sinopharm.

Poi, c’è tutto il sostrato – che forse tanto sostrato non è – politico legato all’accordo. Sia domestico che internazionale. Lo scorso anno l’Ayatollah Khamenei aveva incaricato Ali Larijani, ex speaker del parlamento iraniano e considerato un conservatore piuttosto pragmatico, di fargli da consigliere per quanto riguarda il dossier Cina. Secondo il giornale online Amjaw, Larijani avrebbe poi assunto il ruolo di “zar” dell’accordo a Tehran, con il compito di coordinare le varie controparti iraniane.

Segno, per la verità non nuovo, di una certa debolezza del governo Rouhani. I cinesi, invece, con questo accordo mandano anche segnali a Washington, da un lato rivendicando la propria indipendenza, dall’altro intestandosi nuovamente il possibile ruolo di facilitatori e poi mediatori di un ritorno al tavolo negoziale di Iran e Stati Uniti.

Il riassunto migliore di questo accordo lo ha però fatto Jonathan Fulton, tra i più grandi esperti di Cina nel Golfo Persico, su Twitter: ‘That was a list of things the two hope to do, under perfect conditions’. Una lista di obbiettivi, che la Cina e l’Iran sperano di poter realizzare se le circostanze e le condizioni saranno perfette.

Ed è quest’ultima la causa necessaria, ma forse non sufficiente visto che le relazioni tra Cina e Iran non esistono in uno spazio vuoto, a tradurre la simbologia in sostanza. A oggi tali condizioni non esistono. E allora, volendo immaginare un curioso ibrido letterario tra il Bardo e Azar Nafisi, il titolo sarebbe Leggere Shakespeare a Pechino e Tehran: tanto rumore per (quasi) nulla.



×

Iscriviti alla newsletter