Se si trattasse di scegliere un segretario, punto e basta, quella di Letta sarebbe la scelta migliore. Il punto però sta nel fatto che la domanda che il Pd deve porsi è invece un’altra. Non si tratta tanto di chiedersi quale possa essere il miglior segretario che incarni una linea. Si tratta, al contrario, di chiedersi se la linea seguita fin qui sia quella giusta, se l’identità sia definita una volta per tutte, se le alleanze siano obbligate oppure no, virtuose oppure no. Il commento di Marco Follini
Enrico Letta, prossimo segretario del Pd, è la risposta giusta alla domanda sbagliata. Almeno, così pare a me. Ovviamente il galateo politico richiede che a una nuova leadership vengano offerti gli auguri di rito e anche qualche calorosa parola di incoraggiamento. Per quanto mi riguarda, poi, sono amico di Enrico e dunque mi viene spontaneo di tifare per la sua buona riuscita. Ancorché io lo faccia da bordo campo.
Ma la difficoltà dell’impresa è evidente e non sono le parole di circostanza a renderla più facile. Dunque, cerchiamo di capire quello che va e quello che no, qual è la risposta e qual è la domanda. Magari in questo ordine capovolto.
La risposta giusta è, per l’appunto, Letta. È un dirigente politico capace, tra i migliori di questa stagione. Ha visione, una buona scuola alle spalle, una certa coerenza di ragionamento. Per giunta, con il suo carattere mite eppure rigoroso alza il livello di civiltà dello scontro politico, e di questi tempi la cosa non può che essere grandemente apprezzata.
Se si trattasse di scegliere un segretario, punto e basta, sarebbe la scelta migliore. Il punto però sta nel fatto che la domanda che il Pd deve porsi è invece un’altra. Non si tratta tanto, io credo, di chiedersi quale possa essere il miglior segretario che incarni una linea, innovi qualcosa, dia lustro a un’identità, e faccia tutte queste cose a partire da una strategia apprezzabile e condivisa. Si tratta, al contrario, di chiedersi se la linea seguita fin qui sia quella giusta, se l’identità sia definita una volta per tutte, se le alleanze siano obbligate oppure no, virtuose oppure no. Insomma, si tratta di scegliere un percorso, e non di affidarsi a una guida che abbia solo il compito di seguirne diligentemente il tracciato, quasi fosse una rotta obbligata.
Il Pd è arrivato all’alleanza con i 5 Stelle in modo, come dire, preterintenzionale. L’ha deciso in corso d’opera, senza mai troppa convinzione. E mano a mano che si stringevano i bulloni di quella maggioranza di governo vi si è trovato invischiato in un modo che appare ora pressoché inesorabile. È un alleanza di ferro, quanto agli obblighi. E di burro, quanto alle affinità. Alcuni hanno subìto questa necessità, altri vi si sono beatamente crogiolati.
La nobile pretesa di redimere gli alleati grillini ha finito in realtà, almeno secondo me, per traviare il Pd allontanandolo da se stesso. Nella loro apparente furbizia i dirigenti del Nazareno hanno confidato infatti che il M5S si sgonfiasse da sé, dandogli ragioni che non aveva e dimenticando torti che si finivano per essere costretti a condividere. Per non dire della santificazione di Conte, incensato giorno e notte oltre ogni suo merito. Così il Pd si è infine trovato ostaggio di un populismo che pensava di aver catturato.
Il risultato di tutto questo è stata una pseudo-riforma istituzionale figlia della demagogia pentastellata, e contestualmente la rinuncia a mettere in agenda i punti cruciali di un programma di governo che avrebbe fatto capire che il Pd aveva cose da dire e voce in capitolo. Senza considerare da ultimo il sarcasmo di Grillo offertosi addirittura come segretario, “elevato” per giunta, come a significare la considerazione in cui si veniva tenuti.
Ora ci sarebbe da chiedersi se questa alleanza sia davvero un destino, o non piuttosto una trappola da cui cercare di tirarsi fuori. È questa, appunto, la domanda che il Pd dovrebbe ora rivolgere a sé stesso e al suo prossimo segretario. Peccato che nessuno la stia facendo.