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Dai Måneskin al cartone animato di Ibrahimović. Le pagelle sanremesi di Giuliani

Dai tempi di Pippo Baudo, il festival non riesce a curare il proprio gigantismo, arrivato quest’anno a vette inesplorate. Ibrahimović? Surreale e divertente al punto giusto, quello che adesso non ti fa vedere l’ora di poter tornare ad ammirarlo allo stadio. Dal vivo, magari, come il prossimo Sanremo

Quando vince il rock, sono fra coloro che saranno sempre contenti. In qualsiasi forma avvenga, anche a Sanremo, storicamente refrattario ai gruppi e al rock.

I Måneskin piacciono. Moltissimo ai ragazzi, ma non di rado anche ai loro genitori. Il che è un indiscutibile merito, perché bucare le generazioni vale almeno come bucare lo schermo, specialità della casa. Detto questo, bisogna intendersi su che cosa significhi proclamare la vittoria del rock al Festival.

Il pezzo dei Måneskin è indiscutibilmente rock, lo sono loro – come direbbe nonno Celentano – ma fino a che punto interpretano la storica ribellione istintiva dei rockettari? Lecito chiederselo, al termine di un’edizione del Festival caratterizzata dalla massima ricerca musicale consentita su RaiUno (bravissimo Amadeus, come Fiorello su altri registri), ma anche da un senso di già visto che disturba.

I Måneskin esprimono una sacrosanta e vitale rabbia giovanile, impastata però da una fastidiosa sovrastruttura creata a tavolino.

La rottura degli schemi e lo scandalo sono il carburante del rock da sempre, ma se puri e istintivi.

Il tempo dirà quanto ci sia di spontaneo e quanto di costruito. Oltre i peana un po’ forzati dei critici e prima di fare la fine di Achille Lauro, che in un anno è riuscito a sapere di vecchio. Quest’ultimo, è un tipico fenomeno dei nostri tempi mediatici. Si autoalimenta, fino a perdere il senso di se stesso, sfumando in una stanca ripetizione. Solo la superficialità di chi vive senza memoria può non riconoscerla con disarmante facilità. Roba vecchia di quarant’anni, dallo straordinario valore se incastonato nella storia del nostro costume, altrimenti solo furbesco ricicciamento.

Accennavamo alla ricerca musicale, vero fiore all’occhiello della direzione artistica di Amadeus. Di più non si poteva proprio fare sulla rete ammiraglia Rai e in un’edizione a elevatissima complessità, a causa della pandemia. Esperimento pienamente riuscito, compresi i pezzi di minor qualità, per quanto coraggiosi. Del resto, è stato il coraggio la vera cifra di questi interminabili cinque giorni. Il coraggio dei conduttori nel provare a far sorridere un paese piagato, il coraggio dei cantanti nell’affrontare un festival mai visto, ma anche del pubblico che ha ostinatamente retto a delle maratone insensate.

Dai tempi di Pippo Baudo, il Festival non riesce a curare il proprio gigantismo, arrivato quest’anno a vette inesplorate. 26 i cantanti in gara, più i giovani, sono una palese assurdità. Non priva, peraltro, di una spiegazione: Amadeus, come detto, ha giocato il suo jolly sul cast, riuscendo a sfondare nel pubblico più giovane. Un merito enorme. Qualcosa doveva pur pagare all’indispensabile manierismo di RaiUno (che si tramuta nei soldi tonanti degli sponsor) e l’unico modo era mettere dentro un po’ di tutto, per salvare ciò che veramente gli stava a cuore.

Una bella lezione: restare sempre concentrati sul risultato, non rifiutando concettualmente i compromessi, ma gestendoli.

Fiorello ha ricordato all’Italia che si può ancora ridere in compagnia e dovremmo amarlo anche solo per questo.

Il resto è stato contorno. Funzionale, ma destinato a lasciare il tempo che ha trovato, compreso il cartone animato di Zlatan Ibrahimović. Surreale e divertente al punto giusto, quello che adesso non ti fa vedere l’ora di poter tornare ad ammirarlo allo stadio.

Dal vivo, magari, come il prossimo Sanremo.



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