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Fukushima dieci anni dopo. Il disastro nucleare nel ricordo dell’amb. Petrone

Di Vincenzo Petrone

Quando l’11 marzo del 2011 un violentissimo terremoto scosse il Giappone, provocando il disastro nucleare di Fukushima, Vincenzo Petrone era ambasciatore d’Italia a Tokyo. A dieci anni di distanza, ecco il ricordo di quei drammatici momenti, tra gestione dell’emergenza e la psicosi nucleare che arrivò fino al nostro Paese

Tokyo, ore 14.46 di venerdì 11 marzo 2011. Mi trovo ad Odaiba, nel quartiere di Tokyo oltre il fiume Sumida, la principale via d’acqua della capitale giapponese, quando la terra comincia a tremare: oscillazioni sempre più forti fino a raggiungere la massima intensità di 5+ gradi sulla scala giapponese. I modernissimi grattacieli di Odaiba in cristallo sembrano avvicinarsi gli uni agli altri. A Tokyo non sanno che duecento chilometri più a nord, una scossa 120 volte più forte, di magnitudo 9 (la più elevata nella storia dell’arcipelago) e il successivo, devastante Tsunami dal Pacifico stanno radendo al suolo intere città lungo 300 chilometri di costa, provocando oltre ventisettemila vittime e dispersi e danni enormi alle infrastrutture e agli impianti industriali.

Ricostruita negli ultimi trent’anni con criteri antisismici d’avanguardia, Tokyo resiste benissimo al terremoto, non si vede un solo edificio lesionato, ma la leggendaria rete dei trasporti su rotaia viene bloccata per ragioni precauzionali, impedendo la mobilità di milioni di persone improvvisamente prive del consueto mezzo di trasporto, e per di più isolate per il collasso della rete di telefonia mobile. Già dopo i primi momenti intuiamo l’enormità della catastrofe. Eppure, ciò che in quei momenti colpisce di più uno straniero come me, è la assoluta mancanza di scene di panico, la incredibile compostezza di quelle moltitudini bibliche di individui che camminano ordinatamente sui marciapiedi accanto a un traffico abnorme, ma rispettoso perfino dei semafori, tutti funzionanti.

Col cellulare fuori uso, mia moglie d io, in macchina nel traffico, ci chiediamo se nostra figlia quattordicenne sia rimasta incolume a scuola, un edificio non moderno e dunque di dubbia tempra antisismica. Voglio arrivare al più presto in ambasciata per far scattare il piano d’emergenza, informare il mio governo e cominciare a comunicare con i 3.070 italiani residenti in Giappone. Eppure, non posso impedirmi di osservare attraverso il finestrino dell’auto che mi riporta in l’Ambasciata, questi uomini e queste donne impassibili, ammirato per la loro capacità di autocontrollo anche in una circostanza così drammatica.

In Ambasciata sono giunto un’ora dopo, quando lo staff era già nel pieno dei primi interventi del piano d’emergenza sismica, che avevamo rivisto solo pochi mesi prima. In questa fase la assoluta priorità era acquisire informazioni attendibili, non solo sui danni nel nord est, ove pochissimi erano gli italiani, quanto piuttosto sul rischio che uno tsunami potesse arrivare da un minuto all’altro anche a Tokyo, dove la gran parte degli italiani risiede. Per evitare il panico, entro poche ore occorreva dire alla comunità italiana da quali pericoli dovevano difendersi nell’immediato; sei del nostro staff al contempo, stavano cercando di verificare l’incolumità delle 29 famiglie che sapevamo trovarsi nelle zone più colpite, e che potevano ben essere tra le vittime.

In questo, ci aiutò in parte la televisione pubblica giapponese, che in tempo reale passava molte immagini ma non molti dati sulla catastrofe. Ma, soprattutto, internet e la posta elettronica furono fin dalle prime ore i nostri veri, grandi alleati che, a differenza dei cellulari e dei telefoni fissi, sono rimasti sempre perfettamente funzionanti. I 54 collaboratori dell’Ambasciata erano tutti al loro posto. Mi colpì che nessuno si fosse mosso per andare a casa a controllare i danni o accertare l’incolumità dei loro familiari, con i quali non erano riusciti ancora a parlare. Tutto il personale, funzionari e impiegati, italiani e giapponesi, da quel momento hanno lavorato senza sosta, 24 ore su 24, sette giorni su sette, con turni di riposo di poche ore. Molti hanno rivisto le mura di casa solo quarantotto ore dopo.
E pensare che proprio nelle ore precedenti la catastrofe stavamo preparando con entusiasmo una grande, bellissima festa per il 150mo compleanno della nostra Repubblica, che cadeva il 17 marzo.

L’Ambasciata stava dando gli ultimi ritocchi agli eventi celebrativi dell’anniversario. Tra questi, ce n’era uno in particolare di cui eravamo davvero orgogliosi, perché avrebbe dato un rilievo straordinario all’anniversario: la rappresentazione della Tosca di Puccini, nella grande e prestigiosa NHK Hall prevista appunto per il 17 marzo con oltre 3.200 spettatori che con noi avrebbero brindato alla nostra Nazione. Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, amatissimo a Tokyo, diretto da Zubin Mehta, avrebbe messo in scena il capolavoro operistico di Puccini.

L’11 marzo, il Maggio era già arrivato a Tokyo al gran completo, con trecento artisti, professori d’orchestra, dirigenti e tecnici. In pochi minuti lo scenario non era più di festa. Era drammaticamente cambiato. L’attenzione dello staff del Maggio, nonostante il coraggio di Zubin Mehta e della Sovrintendente, non era più focalizzata sulle prove per i concerti e men che meno sull’evento celebrativo del 150mo Anniversario, ma era monopolizzata dalla spasmodica richiesta di informazioni e assistenza. Gli artisti e i tecnici non correvano in realtà rischi reali, poiché erano alloggiati in un modernissimo albergo con tutte le garanzie antisismiche, ma tutti erano visibilmente scossi da quanto stava succedendo, soprattutto perché venivano assediati da centinaia, migliaia di telefonate da Firenze, ove si cominciava a diffondere una percezione parossistica del rischio di contaminazione radioattiva dalla Centrale Nucleare di Fukushima, i cui reattori erano ormai privi di raffreddamento per il black-out elettrico causato dall’inondazione.

Nella sede di Tokyo dell’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Energia Atomica, già poche ore dopo il terremoto e lo tsunami, si intuivano i contorni della criticità verificatasi in ben quattro dei sei reattori dell’impianto nucleare di Fukushima. Le notizie sul rischio nucleare si accavallavano a spirale, ed era ormai questo il vero punto focale dei timori che si stavano impadronendo della nostra comunità in Giappone e soprattutto dello staff del Maggio Musicale. D’altronde, era la minaccia nucleare, già poche ore dopo il terremoto, l’oggetto delle centinaia di chiamate che arrivavano in Ambasciata dall’Italia. E così, mentre cercavamo di entrare in contatto con i 29 connazionali che erano effettivamente e direttamente in pericolo nelle regioni colpite, ci dovevamo attrezzare per raccogliere e analizzare le notizie sull’emergenza nucleare a Fukushima.

In quelle prime ore, tra tutte le Ambasciate europee a Tokyo, proprio noi italiani eravamo tra i meglio attrezzati per capire che cosa stesse davvero succedendo e cosa poteva ancora succedere sul piano della contaminazione nucleare soprattutto per quanto riguardava Tokyo. E questo perché eravamo gli unici ad avere, come addetto scientifico, proprio un fisico nucleare, il dottor Alberto Mengoni dell’Enea. Per di più, Mengoni aveva lavorato per anni all’Aiea di Vienna prima di arrivare in Ambasciata. La sua specializzazione scientifica fece sì che, in poche ore, fossimo attrezzati non solo ad acquisire, ma soprattutto a valutare in modo approfondito tutte le informazioni che forniva la TEPCO, società che gestiva l’impianto di Fukushima.

Mengoni, aiutato da un altro accademico dell’Università Statale di Milano, il professor Corrado Molteni, perfetto conoscitore del giapponese e con decenni di esperienza in Giappone, registrava, riascoltava e sviscerava parola per parola tutte le notizie che ricevevamo dalla Nisa, l’Agenzia per la sicurezza nucleare e industriale del ministero dell’Industria e dell’economia, e dalla Nsc, la Commissione per la sicurezza nucleare, alle dipendenze del primo ministro. Le notizie erano scarne al punto che potevano suonare reticenti. Ma i “due professori”, come iniziammo a chiamarli, ci spiegavano che non si trattava di reticenza del gestore della centrale di Fukushima, dei tecnici e delle autorità di controllo. Il problema era costituito dalla enorme difficoltà per le autorità giapponesi di reperire dati certi sui danni ai reattori, in quanto la centrale nucleare era rimasta isolata, priva di elettricità, ormai avvolta nell’oscurità della sera, al centro di un’area ancora allagata dall’onda di tsunami alta almeno quindici metri, che l’aveva travolta.

La cruda verità di quelle prime ore era che il Giappone, e tutti noi stranieri, eravamo preparatissimi a gestire un’emergenza terremoto che da anni sapevamo in arrivo, ma non potevamo certo prevedere una crisi nucleare. Nessuno aveva mai ipotizzato che si potesse verificare una sequenza terremoto/tsunami/rischio nucleare. E invece era questa la dinamica che si stava dispiegando sotto gli occhi increduli del mondo intero. Ecco perché nessuno aveva piani né dettagliati né collaudati per gestire questa emergenza, tanto meno su questa scala ed in contemporanea con il terremoto.

Il governatorato di Tokyo, la municipalità di Minato-ku, dove ha sede la nostra bellissima Ambasciata, il ministero della Salute sapevano tutto sul terremoto, sapevano molto sullo tsunami, ma erano privi di risposte ai nostri quesiti sui livelli di radioattività ambientale, sulla valutazione dell’eventuale rischio di contaminazione del cibo e delle riserve di acqua potabile. E dunque, l’Ambasciata italiana, come tutte le altre Ambasciate, nelle prime ore si é dovuta attrezzare autonomamente, sfruttando tutti i canali esterni disponibili per raccogliere dati, elaborarli, interpretarli e poi comunicarli in un linguaggio comprensibile agli italiani che sapevamo essere presenti in Giappone.

Cominciammo a preparare comunicati brevi, frequenti, aggiornati ogni poche ore, che diffondevamo sia tramite posta elettronica, sia sul sito dell’Ambasciata e in Italia, nel portale dell’Unità di crisi della Farnesina. Il problema, dopo le prime 24 ore, fu che i nostri dati e la lettura professionale e scientifica che eravamo in grado di farne in Ambasciata, contrastavano in maniera evidente con le apocalittiche previsioni che venivano diffuse in Italia dai media circa il rischio nucleare anche a Tokyo. E così erano migliaia le persone che, avendo parenti o amici in Giappone, intasavano dall’Italia il nostro centralino perché vedevano immagini televisive terrificanti. Ma, soprattutto, queste immagini e le conseguenti deduzioni di assoluto pericolo rimbalzavano in pochi minuti dall’Italia sui cellulari degli italiani che erano qui e venivano spaventati più dai loro conoscenti in Italia che dalle notizie sul terreno.

Ad un certo punto, la sera di sabato 12 marzo ci rendemmo conto che questa forte discrasia stava diventando insostenibile. La contraddizione tra la nostra equilibrata valutazione del rischio effettivo e le immagini del disastro di Fukushima che affollavano gli schermi televisivi italiani, si sarebbe probabilmente tradotta in poche ore, in un panico incontrollabile nella nostra comunità, che fino a quel momento aveva dimostrato un sangue freddo straordinario. L’unica via era quella di agire alla fonte, e dunque in Italia, soprattutto sulla televisione italiana, per dare la nostra lettura degli eventi e del rischio reale. Certamente non bastavano più né le mail continue che inviavamo ai connazionali, né tanto meno le analisi e i commenti che pubblicavano sul sito dell’Ambasciata e dell’Unità di crisi della Farnesina.

A renderci le cose ancora più difficili fu anche il fatto che in quelle ore ci trovammo in aperto disaccordo anche con autorevoli consigli di evacuazione che. ad esempio. le Ambasciate di Francia e Germania stavano diffondendo a Tokyo, mentre le nostre valutazioni ed i nostri “travel advice” finivano con il coincidere con gli avvisi pubblicati dall’Ambasciata britannica e da quella degli Stati Uniti.

A Fukushima, soprattutto dopo le due forti esplosioni di idrogeno nei locali dei reattori (ma per fortuna non nel contenitore del nocciolo), e per effetto dell’incendio che ne era scaturito, si stava certamente verificando un grave incidente nucleare, ma la contaminazione era e sarebbe con ogni probabilità rimasta limitata alla centrale e al territorio in un raggio di 30-40 chilometri da Fukushima. La situazione a Tokyo restava sicura. Di questo restammo convinti anche la sera di lunedì 14 marzo, quando il vento del Pacifico portò verso Tokyo la lieve nube radioattiva formatasi su Fukushima, per effetto delle esplosioni, per di più con una pesante pioggia che per tutta la notte ne fece precipitare il contenuto sui tetti, sulle strade della capitale e sulla nostra Ambasciata. Il dottor Mengoni controllava le sue analisi al telefono, minuto per minuto, con i suoi colleghi dell’Aiea a Vienna e, a Washington, con l’Agenzia per la sicurezza nucleare degli Stati Uniti. Queste analisi confermavano che anche con la pioggia leggermente radioattiva che stava arrivando, il rischio di contaminazione nucleare a Tokyo restava bassissimo.

A fronte della ormai parossistica agitazione per il Maggio Musicale Fiorentino, la cui eco ci arrivava da Firenze e dell’apocalittico reporting di tanti tra i nostri media, toccava ora all’Ambasciata decidere se consigliare o meno a Roma, che la comunità italiana venisse evacuata da Tokyo. D’altronde, i francesi si accingevano a farlo con due aerei militari. I tedeschi avevano da parecchie ore, in silenzio e senza avvertire nessuno, chiesto alle loro società di rimpatriare il proprio personale. Ma tutti gli anglosassoni, inclusi gli americani, erano molto meno catastrofici, esattamente come noi.

Nella tradizione della diplomazia italiana gli Ambasciatori godono di grande autonomia e potere decisionale nelle difficili scelte tipiche dei momenti di crisi come questo. Dunque, all’Ambasciata e al capo missione spettava l’ultima parola su due aspetti: se chiedere la evacuazione della collettività, e se chiudere l’Ambasciata o tenerla aperta. Ben diversa era la situazione per i colleghi degli altri grandi Paesi europei, con staff tecnici e diplomatici di parecchi multipli maggiori del nostro. Diversamente da noi, per la gran parte degli Ambasciatori europei la crisi veniva scandita minuto per minuto, da decisioni irrevocabili che arrivavano dalle capitali, temo dettate più dal “sentimento” politico e di interessi industriali che da obiettive valutazioni scientifiche e di contesto.

Fatto sta che nel giro di poche ore, i vertici diplomatici e politici del nostro ministero e del nostro governo avallavano entrambe le mie richieste. Da un lato, tenere aperta la nostra Rappresentanza a Tokyo, nonostante le altre grandi Ambasciate europee, salvo quella di Sua Maestà britannica, avessero deciso di spostarsi a Osaka e Kyoto ove non vi era rischio, né sismico, né nucleare. Dall’altro, andare in diretta sulle televisioni e sulle radio italiane, oltre che sui quotidiani, per spiegare questa meditata scelta e dare la nostra sobria valutazione del rischio che Tokyo e la nostra comunità correvano in quei convulsi momenti.

E così, nelle 72 ore tra la notte di sabato 12 e la notte di lunedì 14 marzo, il servizio stampa della Farnesina mi passò in media una intervista ogni ora. Ci attendevamo, con i colleghi al Servizio Stampa della Farnesina, di essere criticati perché facevamo valutazioni diverse dalla generalità dei media. E invece, pian piano ci accorgemmo che il reporting delle nostre Tv, e poi degli altri media, pur con qualche macroscopica eccezione, cominciava a risentire nel tono e nella sostanza delle nostre valutazioni. Non posso nascondere che serpeggiava, sia fra gli italiani che fra molti giornalisti, il dubbio che i dati ufficiali giapponesi fossero compiacenti e non riflettessero che in minima parte la gravità della situazione. Per far fronte ad un dubbio del genere a un certo punto non bastavano più neppure le interviste e le opinioni scientifiche. Occorrevano dati obiettivi e misurazioni indipendenti, riscontri in atmosfera e sul terreno.

Potemmo avere anche questi e li diffondemmo subito, non appena la Farnesina fece arrivare in Ambasciata un team di tecnici di alto livello della Protezione civile, dei Vigili del fuoco e dell’Ispra, che effettuarono decine di misurazioni appena messo piede a terra all’aeroporto di Narita e subito dopo sui tetti e nel giardino dell’Ambasciata, oltre che in una dozzina di quartieri della capitale. Un team dei Vigili del Fuoco si spinse fin nelle prefetture a nord di Tokyo, arrivando a soli 100 chilometri da Fukushima, per misurare la radioattività nell’aria e al suolo. Ebbene, tutte le nostre rilevazioni ci confermavano l’attendibilità dei dati di fonte giapponese, e così potemmo rassicurare senza esitazioni la nostra opinione pubblica, su un aspetto che sapevamo essere controverso e discusso in tutta la comunità straniera in questa prima fase dell’emergenza.

La cosa divertente fu che, a un certo punto, per essere certi di essere compresi, demmo all’Ansa la notizia che i valori di radioattività atmosferica a Tokyo, erano più bassi che a Roma. Attoniti leggemmo, dopo poche ore, che il Comune di Roma informava i cittadini romani che ciononostante “a Roma non vi erano rischi”. Fu un momento di autentica allegria alle nostre postazioni di lavoro.

L’Ambasciata in quei convulsi momenti doveva anche garantire il coordinamento, per la verità non esaltante, con le altre Ambasciate europee, nonostante gli sforzi della delegazione dell’Unione europea. In realtà ci sentivamo spessissimo quasi soltanto con francesi e britannici e con la delegazione dell’Ue. Ma soprattutto, privilegevamo i contatti con le agenzie internazionali, soprattutto la Aiea e l’Oms, che potevano corroborare le nostre valutazioni.

Dicevo che la Farnesina ci autorizzò a tenere aperta l’Ambasciata: per restare operativa mi trovai nella necessità di chiedere ai miei 54 collaboratori quanti di loro si sentissero di restare, senza tacere che altre grandi Ambasciate europee, molto più staffate della nostra, avevano deciso di trasferire tutto il personale a Osaka, Kyoto e addirittura a Hiroshima. In due di queste Ambasciate, alcuni dipendenti si erano semplicemente dileguati per tornare in Patria.

Nel nostro ordinamento, l’Ambasciatore in una situazione del genere deve identificare i servizi essenziali da mantenere operativi e può precettare le unità di personale necessarie a garantire questi servizi. Decisi di capovolgere questo assunto e convocai una riunione di tutto lo staff. In piedi, con lo squillo continuo dei telefoni a fare da background, in un quarto d’ora spiegai la decisione di restare aperti, ricordai che mi occorrevano venti persone per garantire i servizi alla collettività e chiesi se vi fossero appunto venti volontari. Alzarono la mano non in venti ma in cinquantadue su 54 uomini e donne, che serenamente decisero di continuare a lavorare, perché vi era bisogno di loro.

Su iniziativa del suo direttore, Umberto Donati, l’Istituto di cultura non soltanto rimase aperto, ma il 17 sera organizzò un piccolo concerto di musica del Risorgimento per celebrare il 150mo Anniversario. Solo nel momento più critico, ai connazionali arrivammo a consigliare di spostarsi per qualche giorno da Tokyo se non avevano importanti ragioni per restarci. Mai invece, in nessun momento, ritenemmo di chiedere agli italiani di lasciare il Giappone, naturalmente fatta eccezione per l’area a ridosso della Centrale di Fukushima. Con il senno di poi, fu la scelta giusta, particolarmente apprezzata dal governo e dalla stampa giapponese che colsero la determinazione degli italiani a sostenere il Giappone in questo difficilissimo frangente.

Ma questa crisi dava materia per pensare anche a un altro aspetto che trascendeva l’immediata contingenza: la psicosi del nucleare aveva preso il sopravvento sul ben più concreto e reale rischio che le forti scosse d’assestamento sismico diventassero distruttive anche per Tokyo. Eppure, dalle 14.46 dell’11 marzo in poi le scosse si susseguivano senza sosta. Guardando al futuro, sapevamo e sappiamo che il rischio terremoto in tutto il Giappone rimane elevato.

Lo confermarono poi studi autorevolissimi che davano una probabilità del 70 % che si verificasse a Tokyo o nella baia antistante la capitale, un evento sismico di magnitudo 7 o superiore nei successivi trent’anni. E dunque, il comune buon senso consiglierebbe di concentrarsi sul rischio sismico. E invece, l’attenzione dei media, il timore più profondo della gente comune, soprattutto degli europei, è stato in quei giorni concentrato sul nucleare.

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