Le valutazioni sul Next Generation Eu e il dispositivo attraverso cui i paesi dovranno impegnare i fondi ricevuti, il Recovery and resilence facility, presentano sia lineamenti economici generali sia implicazioni politiche non ancora esplorate adeguatamente. Ne parla Domenico Fracchiolla, professore di Sociologia delle relazioni internazionali alla Luiss Guido Carli
Considerato, a ragione, una straordinaria opportunità per le economie europee e non solo, negli ultimi mesi il Recovery Fund, più correttamente denominato Next Generation Eu, ha conquistato tutti. Per dare solennità e sottolinearne la portata epocale, alcuni osservatori lo hanno paragonato al Piano Marshall. Tralasciando comparazioni forzate, perché il primo è un grande piano d’indebitamento comune europeo, mentre l’altro è un’epocale stanziamento, manifestazione della solidarietà degli Stati Uniti verso la ricostruzione postbellica europea e condizionato dalla gestione condivisa dello stesso, le valutazioni sul Next Generation Eu e il dispositivo attraverso cui i paesi dovranno impegnare i fondi ricevuti, il Recovery and resilence facility (anche questo confuso con il Recovery Fund) presentano sia lineamenti economici generali sia implicazioni politiche non ancora esplorate adeguatamente.
Partendo dalla rilevante dimensione economica, il Recovery and resilence facility (o Recovery Fund che dir si voglia) fornisce la risposta comune Ue alla ripartenza e ricostruzione dopo la pandemia, per i paesi in difficoltà, con un criterio di proporzionalità determinato dalla gravità della crisi. Per l’Italia, uno dei paesi maggiormente beneficiari delle risorse messe a disposizione si tratta approssimativamente di 69 miliardi di euro in trasferimenti a fondo perduto e 127 miliardi di euro come prestiti.
Nel corso dell’audizione davanti alle Commissioni riunite Bilancio, Finanze e Politiche dell’Ue di Camera e Senato, lo scorso 8 marzo, il ministro italiano dell’Economia e Finanze, Daniele Franco, sottolineava con forza il carattere storico del Next Generation Eu, considerato un fondamentale approfondimento del processo d’integrazione europea, anche nella direzione della costruzione di un bilancio comune. Se una delle problematiche economiche maggiori dell’Ue, soprattutto dell’Eurozona, è la difficoltà a rispondere agli shock asimmetrici per la non perfetta integrazione dei tessuti socio-economici tra i suoi paesi membri, secondo la teoria economica delle Aree Valutarie Ottimali, il Recovery Fund dovrebbe fornire tutti gli strumenti per aumentare la coesione all’interno delle regioni europee e ridurre questi divari.
Come ricordava Giuseppe Pennisi su Formiche.net il 19 maggio scorso, lo shock da Covid-19 può considerarsi, al tempo stesso, uno shock simmetrico (il Covid colpisce tutti) ed asimmetrico dato che colpisce alcuni Stati (già fragili) molto più di altri. Coerentemente agli studi di Robert Mundell, per la difficoltà di spostare il fattore lavoro da un’area dell’eurozona all’altra, in assenza della flessibilità di salari e prezzi ed in vigenza dell’Eurozona, la decisione di trasferire capitale per spese di sviluppo nelle aree più colpite è la migliore possibile. Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, in un’audizione al Parlamento europeo, ripresa il 19 febbraio in un’intervista alla CNN dichiarava: “È essenziale che i fondi di Next Generation Eu siano investiti in modo tempestivo e che vengano utilizzati a supporto di riforme strutturali e investimenti a favore della crescita economica”. Da una parte l’espressione della condivisione del rischio attraverso l’indebitamento comune, dall’altra la presenza di importanti condizionalità in tema di riforme strutturali per accedere alle risorse del Fondo dovrebbero garantire la crescita, il riavvicinamento tra le economie dei vari paesi e maggiore omogeneità. Inoltre, il controllo politico dell’Ue della destinazione dei fondi costituirebbe un rinnovato virtuoso vincolo esterno, utile per i paesi più riottosi alle riforme.
Passando alla dimensione politica, Rosa Balfur, direttrice della sezione Europe del Canargie Endowment for International Peace di Washington osserva che, la recessione post pandemica e l’approfondimento delle tensioni tra Stati Uniti e Cina nel 2012 potrebbe spingere l’Ue a politicizzare i suoi strumenti economici e far ricorso al suo (ritrovato?) soft power.
Per spiegare questa prospettiva fa riferimento alla dimensione della geoeconomia come l’ambito nel quale l’Ue può esercitare la sua influenza, espandendo le relazioni commerciali ed utilizzando l’Euro nei mercati internazionali, con un profondo impatto nella comunità internazionale. L’emergente visione di autonomia dell’Ue si libera delle strettoie geopolitiche della sicurezza e si collega al generale concetto di maggiore resilienza strategica, che contribuisce alla governance internazionale, nella transizione verso un’economia più sostenibile e green, per un maggior benessere dei cittadini.
In tale direzione, il Next Generation Eu contribuisce a creare una maggiore consapevolezza e forza dell’Ue verso una autonomia geopolitica (o geoeconomica) di fatto, prima ancora che politica, espressa dalla presidente Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo State of Union (16 settembre 2020). La difficilissima composizione delle politiche estere dei paesi Ue, come ben noto dall’Alto Rappresentante della politica estera e di sicurezza Ue, potrebbe giungere ad un punto di svolta, secondo un innovativo processo botton down e non top down, seguito fino ad ora. Un rinnovato funzionalismo nel nome di Monnet consentirebbe di passare dal piano dell’integrazione economica a quello di una maggiore integrazione politica. Gli interessi dei singoli paesi Ue troverebbero maggiori punti d’incontro, in un’armonizzazione fin qui assente per i divergenti interessi nazionali. Un processo di elaborazione che non risparmia la dimensione culturale del consolidamento degli orientamenti politici europeisti che consoliderebbe il senso di appartenenza all’Ue.
Anche sul piano interno all’Ue, la portata del Recovery Fund presenta fondamentali implicazioni politiche, che potrebbero finalmente sciogliere i nodi irrisolti della politica europea in tema di mancato rispetto delle condizionalità politiche democratiche e di mancata effettiva europeizzazione di alcuni paesi generosamente ammessi nell’Ue in un momento storico di necessità, per coprire un vuoto di potere creatosi nel centro e nell’est Europa alla fine della guerra fredda.
Il populismo sovranista del fronte di Visegrad troverebbe la conclusione della sua parabola all’interno delle istituzioni europee venendone escluso, perché illegittimo, come illegittimo è l’ossimoro della democrazia illiberale teorizzata dai sovranisti. Archiviate le piroette dell’uomo forte dell’Ungheria Viktor Orban, che abbandona il Ppe per non esservi cacciato, mentre l’economia ungherese vola solo con l’Ue e senza conoscerebbe miseria e arretratezza, l’Ue rilancia un sovranismo europeista e comunitario, interpretato da Mario Draghi con il blocco all’esportazione dei vaccini verso l’Australia, che riceve il plauso del presidente della Commissione e alla fine convince anche la controparte con i suoi argomenti e con la forza geopolitica dell’Ue.
In aggiunta a quanto considerato, con il ritorno alla normalità delle relazioni internazionali dell’amministrazione Biden, la proiezione esterna unitaria dell’Ue come global actor sarebbe in grado di articolare la ridefinizione dei rapporti transatlantici, in un fronte comune. Un rinnovato Atlantismo, che diversamente declinato, compete con sistemi di valori diversi da quelli delle democrazie liberali occidentali.
Su queste basi, il terreno fertile è rappresentato dalla difesa dei fondamentali valori democratici all’interno degli organi multilaterali, che a livello nazionale o anche regionale, non possono più essere perseguiti in modo compiuto, per la crescente porosità dei confini nazionali. In alcuni fora internazionali questo processo è in atto. Ad esempio, di fronte ai rischi di guerre commerciali e di soggiacere al dominio delle multinazionali, libere di curvare l’anarchia internazionale secondo i loro interessi e di tradire l’ordine liberale del mercato, nel corso dell’ultimo G20 il sottosegretario al Tesoro statunitense Yellen si è espresso in modo favorevole all’accordo globale sulla digital tax. Questo tema, collegato alla tassazione minima delle multinazionali (cui lavorano Ocse e Fmi) diventa terreno di collaborazione tra i diversi multilateralismi di Ue e Usa.