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Cosa succede in Medioriente se Israele ha un governo debole 

Di Lorenzo Zacchi

Un governo eterogeneo, o peggio ancora, nato già dimissionario è un passo falso nella strategia geopolitica israeliana. L’analisi post voto di Lorenzo Zacchi, responsabile area Medio Oriente di Geopolitica.info

***Live Talk***

Alle 16 su questa pagina, sulla homepage di Formiche.net e sulla pagina Facebook di Formiche ci sarà un evento dal vivo con Fiamma Nirenstein e Jonathan Pacifici, che discuteranno del risultato elettorale in Israele. Modera Gabriele Carrer di Formiche.net.


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Per la quarta volta in meno di due anni Israele torna ad elezioni. In piena campagna vaccinale di massa, grande successo del Paese e del governo uscente, i cittadini israeliani sono chiamati a eleggere di nuovo il loro Parlamento.

I PRIMI RISULTATI

Con lo scrutinio dei seggi elettorali, che equivale a oltre il 90% dei voti totali, lo scenario non è troppo dissimile da quella che si può chiamare una fase di stallo. La strada per arrivare ai 61 seggi che garantiscono la maggioranza parlamentare è in salita, per entrambe le coalizioni. Benjamin Netanyahu e il Likud si assestano tra i 29 e i 31 seggi, in linea con gli exit poll della notte e con un risultato migliore di quanto preventivato nei sondaggi. Nuova Speranza, il partito nato da una fuoriuscita di esponenti del Likud e guidato da Gideon Saar, non ha confermato gli ottimi numeri dei sondaggi e sembra assestarsi sui 6 seggi. Interessante notare come la fuoriuscita di Saar non abbia indebolito il Likud, ma il Kahol Lavan (Blu e bianco) di Benny Gantz, che ha pagato l’accordo con Netanyahu nell’ultimo tentativo di dare un governo al Paese e le tante fuoriuscite in favore proprio del partito di Saar.

Distanti, nei numeri, i partiti di opposizione: il secondo partito del Paese, Yesh Atid (guidato dal giornalista Yair Lapid), si assesta sui 17 seggi, circa la metà di quelli che prenderà il Likud. Nel blocco avverso a Netanyahu c’è quindi grandissima eterogeneità di temi, ma soprattutto grande frammentazione. Tale incompatibilità di interessi può rappresentare una importante forza propulsiva per la nascita di un nuovo esecutivo guidato dal Premier uscente.

I POSSIBILI SCENARI

Proprio su questa narrativa sembra spingere Netanyahu: nel discorso pronunciato nella notte a Gerusalemme, il leader di Likud ha sostanzialmente chiarito che l’unica possibilità di non andare a nuove elezioni è un esecutivo che passi da lui. Ha rivendicato il fatto di aver portato il partito a un risultato storico, con un distacco dalla seconda forza parlamentare che non si vedeva da decenni, ed ha ribadito l’importanza di assicurare un governo stabile a Israele: “Non pongo veti su nessuno “, ha detto, “perché lo stato di Israele richiede un governo stabile”.

Oltre alle alleanze scontate con le destre ortodosse, Netanyahu deve pescare tra i partiti che in campagna elettorale si sono schierati contro di lui. Se è improbabile pensare a un dietrofront di Saar (anche se in Israele si ipotizzano defezioni nel partito Nuova Speranza), che ha confermato anche nella mattina di non volersi alleare con il Premier uscente, meno difficile è ipotizzare un’alleanza con Naftali Bennett (ex ministro della Difesa con Netanyahu) di Yamina, partito di destra che ha conquistato 7 seggi. Nonostante l’aspro confronto in campagna elettorale, Bennet non ha mai negato in maniera netta la possibilità di una futura alleanza.

La bussola dell’orientamento politico del nuovo governo, come dichiarato in mattinata dall’importante esponente del Likud Tzachi Hanegbi, rimane il “campo nazionalista”, ma in caso questo perimetro non riesca a garantire una maggioranza solida, potrebbe presentarsi una nuova ipotesi. Hanegbi ha dichiarato al Canale 12 che “nella situazione attuale vediamo Mansour Abbas come una potenziale opzione”. Abbas è il leader di Ra’am, che è riuscito a raggiungere la soglia di sbarramento per l’ingresso nella Knesset: un’alleanza con il partito arabo rappresenterebbe una rivoluzione, giustificata dal momento storico del Paese, ma difficile da far digerire agli esponenti del Likud. Dopo queste dichiarazioni in mattinata, alcuni politici del partito di Netanyahu si sono affrettati a bollare come “un grave sbaglio” questa ipotesi di trattativa, confermando le difficoltà di tale azione politica.

I RISCHI GEOPOLITICI

Quel che appare certo è che l’obiettivo di Netanyahu di avere uno stabile governo di destra è complicato e ai limiti dell’impossibile. Lo scenario regionale che l’amministrazione Trump ha lasciato in Medio Oriente è certamente favorevole a Israele, ma le prime mosse di Joe Biden, specialmente nei rapporti con l’Arabia Saudita e nella volontà dichiarata di tornare a un accordo con l’Iran, possono rappresentare un fattore di rischio per lo Stato israeliano. Un governo stabile in grado di dialogare con la nuova amministrazione Usa e di affrontare i delicati dossier regionali (un nuovo accordo Washington-Teheran, un potenziale nuovo governo conservatore in Iran, il raffreddamento dell’asse Usa-Arabia Saudita) rappresenta un imperativo vitale per Israele. La strategia di lungo termine è quella di mantenere il percorso tracciato negli ultimi 5 anni, che ha ridisegnato l’equilibrio regionale mediorientale. Un governo eterogeneo, o peggio ancora, un governo nato già dimissionario, è un passo falso nella strategia israeliana.

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