Sugli app store cinesi di Huawei e Xiaomi sono spariti i prodotti Nike e Adidas dopo le tensioni sullo Xinjiang. E torna un interrogativo: ma il colosso tecnologico può davvero dirsi indipendente dal governo cinese?
In queste ore le applicazioni di Nike e Adidas risultano irraggiungibili su diversi app store in Cina, tra cui quelli degli smartphone Huawei e Xiaomi. La mossa sembra parte del boicottaggio lanciato dal Partito comunista cinese contro alcuni brand di abbigliamento che rifiutano di usare il cotone prodotto nello Xinjiang dopo le accuse di utilizzo del lavoro forzato degli uiguri nella provincia cinese.
Nei giorni scorsi nel mirino del Quotidiano del popolo erano finiti brand come Nike, Adidas, Burberry e New Balance. L’attacco – avvenuto attraverso il profilo Weibo, il “Twitter cinese”, del giornale ufficiale del Partito comunista – viene dopo che i prodotti della svedese H&M sono spariti dalle piattaforme e-commerce cinesi – Alibaba, JD.com, Pinduoduo – in seguito al fatto che l’azienda ha annunciato in un comunicato che non usa il cotone dello Xinjiang per motivi etici. “Ci sono molte compagnie straniere che hanno diffuso dichiarazioni in cui ‘tagliano i rapporti’ con il cotone dello Xinjiang negli ultimi due anni. Tra questi alcuni membri della Better Cotton Initiative come Burberry, Adidas, Nike, New Balance e altre”, si legge nel post su Weibo. “Utenti online – continua – hanno detto che il mercato cinese non accoglie con piacere quelli che accoltellano alla schiena”.
Il Global Times, organo della propaganda cinese in lingua inglese, sottolinea che la “tedesca Adidas” e la “statunitense Nike” rischiano pesanti ripercussioni sulle vendute. Timori che però, riporta il South China Morning Post, appaiono infondati.
Ma la decisione di Huawei di rimuovere ai suoi app store Nike e Adidas in continuità con il boicottaggio governativo ripropone un interrogativo già emerso diverse volte, basti pensare al caso dell’analista ed ex diplomatico Michael Kovrig e all’uomo d’affari Michael Spavor, i due canadesi capri espiatori per il processo contro Meng Wanzhou, direttore finanziario di Huawei nonché figlia del fondatore: la società che punta a vendere le sue tecnologie in Occidente – anche in Italia – è indipendente dalle autorità statali?
Quando, nel luglio scorso, il governo britannico optò per il bando di Huawei dalle reti 5G del Regno Unito, Giulia Sciorati, associate research fellow presso l’Asia Centre dell’Ispi, scrisse: “La risposta è no, come lo è per qualsiasi società in qualsiasi regime, autoritario o meno, che si trova di fronte a richieste di condivisione di informazioni sotto il cappello della sicurezza nazionale. Richieste che sono fuori dal controllo delle società e in mano al sistema legislativo del Paese”, aggiungeva con riferimento alla questione della sicurezza nazionale.
Ecco perché l’ultima decisione del colosso fondato da Ren Zhengfei, ex ingegnere dell’Esercito di liberazione popolare durante gli anni della Rivoluzione culturale, ha fatto tornare di moda l’interrogativo.