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Il fake non parla russo, ma perfetto americano. Guide contro la disinformazione

Capitol Hill protesta

Gli eventi di Capitol Hill hanno materializzato i pericoli della disinformazione digitale. Questo report definitivo studia il fenomeno e offre soluzioni per combattere l’epidemia di fake news

Le elezioni presidenziali americane del 2020 si sono svolte in un contesto tesissimo. Alla profonda polarizzazione politica in atto negli Stati Uniti si sono aggiunte la pandemia, le proteste e le accuse di risultati manipolati, culminate negli eventi di Capitol Hill lo scorso 6 gennaio. Il tutto sullo sfondo del rischio pressante di manipolazione da parte di potenze straniere (leggi: Russia), come avvenuto nel 2016. Ma il rischio di brogli elettorali, stavolta, non era estero: è nato, cresciuto e dilagato internamente.

Memori delle elezioni precedenti, gli apparati di intelligence statunitense innalzarono poderose contromisure per bloccare qualsiasi tipo di interferenza straniera. Ma qualcuno si è accorto che il pericolo poteva essere domestico: il numero di fake news sulle elezioni del 2020 cresceva a dismisura, i disinformatori si aggregavano attorno a focolari digitali come QAnon e inondavano i social con “fatti alternativi”. Fatti che eventualmente trovavano un megafono nei canali media mainstream più vicini al presidente uscente Donald Trump, o addirittura nel suo stesso profilo Twitter.

Così il laboratorio digitale forense dell’Atlantic Council, gli analisti di Graphika, le università di Washington e Stanford e alcuni attori federali hanno creato Election Integrity Partnership (EIP) nel 2018. Il loro obiettivo era identificare e segnalare sul nascere le fake news potenzialmente virali. Quando è partito il progetto, si sono accorti che il 72% della disinformazione prodotta negli Stati Uniti aveva a che fare con le elezioni del 2020 – e che la campagna per la rielezione di Trump era direttamente coinvolta.

Mercoledì EIP ha pubblicato uno studio definitivo sulle cause del fenomeno che ha portato agli eventi di Capitol Hill. La presentazione è stata accompagnata da un evento dell’Atlantic Council a cui ha partecipato Chris Krebs, il direttore della divisione governativa di cibersicurezza (Department of Homeland Security’s Cybersecurity and Infrastructure Security Agency). Krebs, che fu licenziato dall’ex presidente per via delle sue ripetute dichiarazioni riguardo all’integrità delle elezioni 2020 (in diretto contrasto con la narrativa trumpiana), è una delle menti dietro a EIP.

L’ex direttore è partito evidenziando la solidità del sistema elettorale americano, decentralizzato per natura e basato in gran parte su schede cartacee, dunque ricontabili. Eppure, una parte consistente dei repubblicani americani (76% secondo CNN) crede che le elezioni siano state manipolate, anche dopo lo spettacolare fallimento delle cause intentate dalla squadra Trump per ribaltare il risultato elettorale.

Il problema è sistemico, ha spiegato Krebs, e va affrontato subito. “Deve esserci uno zar di contro-disinformazione,” ha sostenuto, rivolgendosi direttamente alle autorità; “questa è un’urgenza che interessa tutto il governo e tutte le agenzie, e deve esserci qualcuno di abbastanza autorevole da farli lavorare assieme”. Il controllo della disinformazione deve essere un servizio garantito dal governo, ha continuato, perché il problema è così grande che nel giro di qualche anno anche le grandi aziende dovranno istituire una figura addetta al rumor control per contrastare le narrative digitali con potenziale distruttivo.

Come nasce, cresce e si diffonde una fake

Gli addetti ai lavori si sono poi concentrati sui contenuti del report EIP. Le fonti di disinformazione sono di due tipi: “dall’alto”, da media mainstream e di parte, influencer, lo stesso Trump, verso il pubblico; e “dal basso”, ossia ripercorrendo al contrario questa catena a partire da un post, un hashtag virale, un video o una teoria cospirativa più complessa. L’intera operazione prevede la partecipazione del pubblico, ma non è necessariamente spontanea.

Fonte: report EIP

Nel primo caso, spesso i semi dei contenuti sono “piantati” artificialmente. La metanarrativa delle elezioni rubate è il risultato di teorie cospirazioniste addensatesi nel movimento #StopTheSteal (“fermate il furto”, ndr), che portò ai fatti di Capitol Hill. L’hashtag, però, era stato creato nel 2016 dallo stratega politico trumpiano Roger Stone (nel frattempo arrestato e poi graziato dal presidente) come strumento di campagna elettorale contro il partito democratico. #StopTheSteal è poi diventato popolarissimo tra influencer e politici conservatori, che lo usavano per veicolare le proprie idee o la propria immagine. Da lì, il passo nel discorso politico pubblico fu breve.

Immagine usata per la manifestazione #StopTheSteal, confluita nell’assalto a Capitol Hill

Nel secondo caso, delle prove aneddotiche di elezioni truccate (come l’idea che usare un pennarello annullasse il voto) nascevano tra la ridda di post e venivano amplificati da utenti ignari, genuinamente preoccupati, o “soldati digitali” pro-Trump, inclusi politici e influencer del mondo repubblicano attraverso account verificati (i principali diffusori in termini di impatto). Quindi i canali di informazione mainstream rilanciavano la fake come servizio di interesse pubblico (“sono apparse su Twitter delle testimonianze di frode elettorale…”).

Una volta che la notizia falsa è avvalorata, in maniera più o meno spontanea, da questo sistema, è già virale. Gli utenti adattano i contenuti al social di appartenenza, impacchettando l’unità informativa in un formato in grado di fare presa. La pratica del fact checking non si è rivelata sempre efficace, spiega il report, non solo perché è percepita dalla alt-right come uno strumento censorio della sinistra, ma perché le testate che si occupano di fact checking spesso e volentieri danno solo più risalto alla fake.

Secondo EIP, ci sono state operazioni di disinformazione dall’estero anche nel 2020, anche se in misura talmente inferiore a quelle domestiche da essere praticamente trascurabili. Gli attori ostili (Iran, Russia e Cina) hanno avuto vita facile: si sono limitati ad amplificare le narrative americane più divisive e cariche d’odio, attraverso bot, account falsi o ignari blogger americani assoldati. Nonostante tutto, si sono rivelati largamente inefficaci: le misure di contrasto alla disinformazione estera hanno funzionato, conclude il report.

Infine, una parte della colpa è attribuibile anche alle piattaforme digitali. EIP riconosce i loro sforzi nel riconoscere ed eliminare o limitare le forme peggiori di disinformazione, ma ne evidenzia l’inefficacia: iniziale mancanza di regole per limitare la disinformazione, misure troppo diverse e applicate in modo disomogeneo, riluttanza a silenziare le voci di interesse pubblico (Trump stesso, ad esempio).

Le soluzioni

La parte finale del report EIP delinea una risposta al problema della disinformazione, pensata per il governo americano ma applicabile altrove. A partire dal suggerimento di Krebs di istituire una figura di riferimento con poteri tali da poter intervenire nelle varie sezioni governative e creare una risposta interministeriale, coesa. Occorrono anche degli standard per la diffusione dei risultati, affinché questa figura e la sua squadra possano comunicare al pubblico quali elementi di disinformazione (tra le tipologie che mettono in pericolo il funzionamento del sistema democratico) si stanno diffondendo.

Le piattaforme, invece, devono agire proattivamente sotto elezioni, studiando il tipo di disinformazione potenzialmente virale e prendendo contromisure attraverso contenuti informativi, label, e rimozioni, a seconda della gravità. Trattandosi di un campo di sapere relativamente giovane, le compagnie digitali devono anche investire nella ricerca e condividere i risultati con i governi e il pubblico. In più devono istituire una chiara policy riguardo alle conseguenze delle violazioni ripetute dei propri termini di servizio. In soldoni, o ti comporti secondo le regole, o sei bannato.

Le elezioni americane del 2020 hanno confermato la volontà di attori, sia domestici che internazionali, di influire sul risultato elettorale attraverso la disinformazione digitale, conclude il report EIP. L’attività, secondo gli esperti, è tuttora in corso. Occorre uno sforzo congiunto di governo, società civile, accademici e piattaforme digitali per depurare il discorso pubblico dalle sue escrescenze più cancerogene per la democrazia, agendo, naturalmente, entro i confini della libertà d’espressione – quella non volta a danneggiare il sistema democratico.


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