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Il papa in Iraq, pellegrino di pace in una Chiesa martire. Parla Impagliazzo

Francesco va in Iraq come pellegrino penitente, come fratello tra i fratelli, in visita a un popolo che da vent’anni soffre per guerre, violenze e terrorismo. La presenza del papa accanto a tanti musulmani, sia sunniti che sciiti, significherà dare forza a tutti quelli che vogliono vivere in pace. Conversazione di Formiche.net con Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio

San Paolo, nella Lettera ai Romani, dice del Patriarca Abramo che “Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli” (Rm 4,18). Nel settembre 2018 papa Francesco, nel suo messaggio ai cattolici cinesi, commentava che “se Abramo avesse preteso condizioni, sociali e politiche, ideali prima di uscire dalla sua terra, forse non sarebbe mai partito”. Di certo, sono le stesse considerazioni che più volte il Pontefice si è posto nei mesi e nei giorni precedenti al 33.mo Viaggio apostolico in corso, dal 5 all’8 marzo, nella martoriata terra dell’Iraq. Tra preoccupazioni e difficoltà, come quella della pandemia che sta duramente aggredendo anche il Paese iracheno, da poche ore Francesco è infatti atterrato a Baghdad, dove darà seguito a un programma ricco di impegni, in continuità con la visita negli Emirati Arabi Uniti e all’insegna del motto evangelico “Siete tutti fratelli “. L’obiettivo è cioè quello di compiere un’ulteriore passo nel cammino della Dichiarazione sulla Fratellanza Umana siglata ad Abu Dhabi nel 2019. Di tutto questo, Formiche.net ne ha parlato con il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo. 

Professore, il viaggio che papa Francesco si appresta a compiere, il primo di un Pontefice in quella terra, si preannuncia come un evento, al di fuori di ogni retorica, veramente storico. Bergoglio realizzerà così un desiderio accarezzato anche dai precedenti Papi. Quale sarà il messaggio che porterà Francesco e cosa dobbiamo aspettarci?

Un grande messaggio di pace. Il papa va in Iraq come pellegrino di pace, come fratello tra i fratelli, questo oggi è il messaggio di cui l’Iraq e gli iracheni hanno bisogno. Sono quasi vent’anni che il popolo iracheno soffre per la guerra, per la violenza e per il terrorismo, e c’è bisogno di asciugare molte lacrime ma anche di rimarginare molte ferite. La presenza del papa credo sia realmente un balsamo per questo popolo sofferente, complesso, fatto di tante etnie e confessioni religiose, che oggi Francesco riunisce con la sua presenza.

Tuttavia in queste ore si stanno leggendo critiche riguardanti il tempismo della Visita Apostolica, che cade in un momento in cui il Paese è in lockdown. Che ne pensa? Francesco avrebbe dovuto rimandare, e quali sono i rischi in cui incorre?

Una volta che il viaggio era stato annunciato, come Francesco stesso ha detto all’Udienza generale, non si poteva dare un’ulteriore delusione ai cittadini iracheni. Io credo che il papa con la sua sola presenza, in una terra come l’Iraq, anche se molti lo vedranno attraverso i mass media, potrà dare un segno di vicinanza, di presenza e un messaggio di pace e di fraternità. Quindi, credo che comunque sarà un successo, perché solo essere presenti in questi momenti difficili.

Ha scritto il gesuita padre Spadaro che il Covid-19 è diventato lo specchio di un virus che ha pervaso il cuore dell’uomo, parlando di “emergenza sanitaria dello spirito”. Il momento particolare del viaggio, quello della crisi pandemica, ha anche un rimando simbolico? Dovremo insomma aspettarci delle immagini e dei momenti che vedremo la stessa cifra, la stessa intensità, di quanto visto il 27 marzo scorso in piazza San Pietro?

Il Covid-19 ci ha rubato innanzitutto la salute, la stabilità economica ma anche la socialità, la presenza, l’incontro personale. Il fatto che il papa sia presente è l’idea di restituire la tanta socialità e presenza rubata. Sentire il papa tra la gente, saperlo lì tra loro, è un grande segno di rinascita, e indica che si può guardare al futuro.

La piana di Ninive è un luogo che rimanda fortemente alla nascita delle tre religioni abramitiche ma che il sedicente Stato Islamico ha occupato per ben tre anni, dal 2014 al 2017. Si tratta delle terre in cui si originarono le tre “religioni del libro”, che oggi sono invece il cuore del feroce scontro di civiltà a cui assistiamo da decenni. Riuscirà Francesco a scalfire gli animi dei fondamentalisti, invertendo la rotta e riportando questi territori alla loro vocazione originaria?

Il papa soprattutto rafforzerà tutti quei musulmani che non ne possono più della caricatura di un islam violento, della bestemmia del nome di Dio, che viene fatta da estremisti e terroristi. La presenza del papa accanto a tanti musulmani, sia sunniti che sciiti, significherà dare forza a tutti quei musulmani che vogliono vivere in pace, che rifiutano la violenza e il terrorismo e che non vogliono che l’islam sia più identificato con il tema della violenza. Il papa rafforzerà i musulmani che credono nella pace, nella convivenza, e ci sono già tanti segni. Ho visto tanti giovani musulmani che accoglieranno il papa con murales, con tanta gioia. Una terra solitamente attraversata da uomini armati oggi sarà attraversata da un pellegrino di pace: questo è il segno.

Anche un bel bastone tra le ruote per quanti puntano a cavalcare il terrore e il terrorismo per i propri fini.

Assolutamente sì, perché più si rafforza l’idea che si può vivere insieme, che non ci sono nemici, che i cristiani non sono nemici, ma sono amici e sono fratelli, più la società civile si rafforza e diventa una diga contro ogni estremismo.

Qual è la condizione che oggi vivono i cristiani in Iraq? Sant’Egidio ha molti rapporti con chi arriva da quelle terre, specialmente attraverso i corridoi umanitari.

Noi abbiamo grandi rapporti sia con la Chiesa caldea, che con quella armena, filo-cattolica e ortodossa. A San Bartolomeo, nella Basilica dedicata ai Nuovi martiri, ci sono reliquie di preti e vescovi che sono stati uccisi dalla violenza terrorista. In mattinata una famiglia irachena venuta con i corridoi umanitari era a Santa Marta per salutare il papa prima della partenza, e gli ha mostrato la storia di un prete caldeo, di Mosul, ucciso perché voleva tenere la chiesa aperta ma i terroristi gli chiedevano di chiuderla. Si chiama Rachid Ganni. Sono anni che la Comunità di Sant’Egidio ha rapporti di grande fraternità, sostegno e amicizia con queste Chiese e con questi cristiani. Noi vediamo così nella Visita del papa un’altra diga alzarsi: quella contro l’emigrazione dei cristiani, che è il più grande problema che oggi i cristiani hanno in tutto il Medio Oriente, non solo in Iraq. La forza del papa sarà quella di aiutare i cristiani a rimanere e a non andare via.

In effetti con il suo viaggio papa Francesco farà una forte luce sul tema delle persecuzioni dei cristiani, sui tanti martiri che ogni giorno perdono la vita a causa della loro fede. Sarà un monito per la coscienza della comunità internazionale.

Il papa ci parla di “Chiesa martire”. Lui viene come pellegrino penitente davanti a una Chiesa martire. Ringrazia i vescovi e i preti che hanno resistito e naturalmente accende un faro molto luminoso su questa vicenda che è la vicenda di tanti cristiani che soffrono nel mondo per le persecuzioni. È un richiamo alla comunità internazionale che poi è la tradizionale politica della Santa Sede per la libertà religiosa.

Francesco incontrerà in privato il grande ayatollah Ali-Sistani, massimo esponente dell’islam sciita. Le chiedo una previsione, quali saranno i temi di cui parleranno, e a cosa porterà il loro dialogo? Ci sarà una nuovo documento come ad Abu-Dhabi?

Noi dobbiamo capire che nella mentalità araba il fatto di essere ospitati, che il papa vada a casa dell’ayatollah, è già in sé il fatto. Il poter ricevere a casa un ospite è il massimo, e ricordiamoci l’ospitalità di Abramo. Nella cultura di quei popoli è dall’ospitalità che nascono i frutti, è a partire dall’ospitalità che Abramo ebbe una grande discendenza. L’ospitalità è generatrice di cose buone. Quindi, che sia un documento, una dichiarazione, qualsiasi cosa emerga da questo incontro certamente sarà una cosa buona che darà frutti nel futuro: di questo ne sono certo. L’ospitalità è tutto, e già oggi gli sciiti dicono al papa: questo è casa tua. Questo è il segno più importante, che va compreso nella cultura del luogo. Noi siamo abituati ad essere più razionali, a lavorare con i documenti e le dichiarazioni, mentre lì si lavora con i segni.


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