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Così i missili di Teheran colpirono la base Usa in Iraq dopo la morte di Soleimani

Non c’è ormai operazione militare che non faccia ricorso a servizi spaziali. A gennaio dello scorso anno, l’Iran ricorse al mercato commerciale per recuperare immagini satellitari della base americana di al-Asad, in Iraq, prima di colpirla con dieci missili balistici. Ma sbagliò…

Per colpire la base americana di al-Asad, in Iraq, le forze missilistiche di Teheran hanno acquistato a gennaio 2020 immagini satellitari sul mercato commerciale. Eppure, proprio questo ha dato modo alle truppe Usa di evacuare al momento giusto, evitando così perdite umane. Lo rivela “60 Minutes”, in uno speciale dedicato all’attacco iraniano.

L’ATTACCO

I fatti risalgono alla notte tra il 7 e l’8 gennaio dello scorso anno, a quattro giorni dal raid su Baghdad che aveva ucciso il leader iraniano Qassem Soleimani. Teheran, come annunciato, fece scattare la sua “vendetta feroce”, con il lancio in pochi minuti, da tre diverse basi, di quindici missili balistici a corto raggio, probabilmente i Fateh-313, in servizio dal 2015 ma con impieghi minori rispetto ai più usati Qiam. Uno colpi la base di Erbil, nel Kurdistan, quattro mancarono l’obiettivo, mentre dieci colpirono la base aerea di al-Asad, circa 230 chilometri a nordovest di Baghdad, tra le principali sedi delle forze Usa nel Paese, all’epoca circa 5.200 unità (oggi sono tremila).

LE PREMESSE

Nei giorni precedenti, Teheran aveva ampiamente minacciato ritorsioni, e tutte le truppe americane (e occidentali) erano in stato d’allerta. L’ayatollah Ali Khamenei aveva dichiarato che l’Iran aveva una lista di 35 obiettivi da colpire. Donald Trump aveva replicato che la lista americana ammontava a 52 target, tanti quanti gli americani rapiti all’ambasciata nel 1979. La minaccia non bastò a sventare l’attacco. Nessuna vittima fu registrata quella notte, né tra gli americani, né tra le forze di altri Paesi, né tra gli iracheni. Oltre ai danni alle strutture e ad alcuni equipaggiamenti, si registrarono 110 feriti.

LE INFORMAZIONI

Poteva andare molto peggio, almeno stando allo speciale di ieri dedicato all’attacco di “60 Minutes”, programma d’inchiesta targato CBS News. Prima dell’attacco missilistico, l’Iran ha infatti reperito immagini satellitari disponibili sulle piattaforme commerciali, così da poter monitorare i movimenti sulla base. Tuttavia, lo US Central Command, al comando di Kenneth F. McKenzie, ne aveva piena consapevolezza, e sfruttò tale superiorità informativa per individuare i tempi idonei a una rapida evacuazione. A fare la differenza fu poi lo stato d’allerta delle truppe, nonché l’allarme lanciato dagli operatori satellitari della neonata US Space Force.

IL FATTORE TEMPO

“Se fossimo andati via troppo presto, avremmo rischiato che il nemico vedesse i nostri movimenti e aggiustasse i suoi piani”, ha detto McKenzie a “60 Minutes”. Così, lo UsCentCom ha atteso fino all’ultimo acquisto di immagini satellitari da parte di Teheran prima di procedere all’evacuazione. Altrimenti “avrebbero visto aeroplani a terra e persone a lavoro”, e forse accelerato i piani. Secondo il generale, “si aspettavano di colpire un certo numero di velivoli e un certo numero di militari statunitensi”.

IL RICORSO A IMMAGINI SATELLITARI

Quali siano i canali utilizzati dall’Iran per recuperare le immagini non è dato sapere, né è stato spiegato come facessero gli Stati Uniti ad averne contezza. Il mercato dell’osservazione via satellite è in forte ascesa, e sono molteplici gli operatori commerciali che offrono servizi di imaging in tempo reale. Ugualmente, non è certo una novità il ricorso a immagini satellitari a supporto di operazioni militari. Non c’è pressoché operazione che non sfrutti i servizi spaziali, tra puntamento, navigazione, comunicazioni e osservazione.

I PIANI SPAZIALI DI TEHERAN

Ciò interessa chiaramente anche l’Iran, che vanta l’arsenale missilistico più completo del Medio Oriente, seconda gamba della propria proiezione esterna dopo il supporto ai proxy regionali (che trovano in Iraq ampio spazio). Ad aprile dello scorso anno Teheran ha fatto il suo debutto nello Spazio militare. Nel giorno del loro 41esimo anniversario, le Guardie rivoluzionarie hanno infatti annunciato il successo del lancio, verso un’orbita a 425 chilometri dalla superficie terrestre, del satellite Noor (“luce”) tramite il vettore a due stadi Ghased (“messaggero”), prima sconosciuto, lanciato dall’Iran centrale, probabilmente dallo spazioporto “Imam Khomeini” situato nella provincia di Semnan, a circa 300 chilometri da Teheran. Di quel payload si conoscono difatti solo il nome e la natura militare, ma non le finalità di impiego.

TRA SATELLITI…

Il debutto dell’Iran nello Spazio civile risale invece al 2009 con il programma Safir (“ambasciatore”). Quattro anni dopo Teheran ha inviato in orbita due scimmie, mentre già nel 2010 l’allora presidente Mahmud Ahmadinejad annunciava che il primo astronauta iraniano avrebbe raggiunto lo Spazio su un veicolo iraniano entro il 2019, evento che resta ancora molto improbabile. A far perdere potenza al programma sono stati numerosi fallimenti, anche in tempi recentissimi. A gennaio 2019 è fallito il lancio del satellite per telerilevamento Payam (“messaggio”). Il mese successivo ha fatto la stessa fine il collega Doosti (“amicizia”), mentre a febbraio 2020 è stata la volta del satellite per telecomunicazioni Zafar (“vittoria”). Tutti hanno provato a superare l’orbita con il vettore Simorg, che in farsi significa “fenice”. Vanno poi aggiunti l’esplosione di un vettore nell’agosto 2019 nella base spaziale Imam Khomeini e l’incendio nel febbraio precedente.

… E VETTORI

Con Noor si sarebbe però aperta una nuova fase. È dello scorso mese l’annuncio (con video) del test di Zoljanah, un nuovo vettore a tre stadi per il trasporto di payload fino a 500 chilometri dalla superficie. Puntuali, anche con Joe Biden, sono arrivate le critiche di Washington, da sempre a ribadire che i lanciatori spaziali possono essere facilmente adattati all’uso missilistico-balistico. Su questo l’Iran si muove con una certa disinvoltura. Il Jcpoa del 2015 (e da cui gli Usa sono usciti nel 2018) riguarda il programma nucleare e le percentuali di arricchimento dell’uranio, non i missili. Ai vettori è infatti dedicata la risoluzione 2231 del 2015 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la quale però “invita” (e non “obbliga”, come invece faceva la precedente 1929 del 2010) l’Iran a sospendere ogni attività sui missili balistici. Ciò lascia ampi spazi alle ambizioni balistiche di Teheran, soprattutto a quelle che il governo definisce “non concepite per trasportare armi nucleari”, proprio come il programma spaziale.

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