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L’Italia e gli italiani 160 anni dopo

Il sentimento patriottico va bene per la nazionale di calcio, per cantare l’inno dai balconi all’inizio della pandemia, ma sotto sotto è un concetto da trattare con distacco, quasi pericoloso. Ecco perché secondo Marco Zacchera

A parte qualche scontato messaggio istituzionale ed una iniziativa politica di FdI mi sembra che ben pochi abbiano ricordato che il 17 marzo ricorreva il 160° anniversario della nostra unità nazionale, anche se parlarne oggi puzza subito di nazionalismo o – peggio – di “nostalgismo”.

Il sottile retroscena è evidente: il sentimento patriottico va bene per la nazionale di calcio, per cantare l’inno dai balconi all’inizio della pandemia (nel frattempo, un anno dopo, molti dei pochi tricolori rimasti ai balconi sembrano degli stracci) ma sotto sotto è un concetto da trattare con distacco, quasi pericoloso.

D’altronde fino ai tempi della presidenza Ciampi perfino esporre la bandiera sembrava sospetto, poi l’uso si è diffuso, ma troppe volte è solo un simbolo istituzionale, raramente vera espressione dei cuori salvo – appunto – le manifestazioni sportive o i grandi appuntamenti pubblici.

C’è ancora “spirito di appartenenza” e orgoglio nazionale nel nostro Paese? A parte chi lo nega o lo censura credo di sì, ma lo si vive solo a tratti e a corrente alternata, non è un sentimento sedimentato nel profondo degli animi.

Negli ultimi decenni è stato visto spesso con sospetto, forse per l’orgia di demagogia che l’aveva accompagnato durante il ventennio fascista.

Nei momenti di difficoltà il cuore degli italiani è grande ma appassisce subito, forse perché martellato da una parte dal rischio della speculazione politica, dall’altro perché – dai, diciamocelo – c’è una buona fetta di sinistra che queste cose le vive con distacco se non con timore o addirittura disprezzo.

Negli Usa, a 250 anni dalla nascita dell’Unione, uno si sente americano ma vi saluta ancora sottolineando lo Stato cui appartiene la propria città, da noi l’Europa è ancora un grande equivoco che negli ultimi tempi ha trasformato la grande idea del dopoguerra in un coacervo di norme e regolamenti, ma spesso perdendo per strada buona parte della carica emotiva di un continente che all’inizio del nuovo secolo sembrava aver scelto con più sicurezza di oggi l’idea di una Unione condivisa. Pochissimi, oggi, manifesterebbero un “senso di appartenenza” europeo.

Questo perché forse servirebbe una Unione “vera”, soprattutto con leggi fiscali ed economiche uguali per tutti, non quella dove uno stato (la Germania) con qualche suo satellite di fatto detta la linea e gli altri si adeguano.

Ma torniamo a quell’autolesionismo che spesso corrode lo spirito italiano.

Un esempio lampante è l’uso della nostra lingua che – incredibilmente – negli ultimi anni è cresciuta solo come linguaggio “ufficiale” della Chiesa cattolica (che ha ormai abbandonato il latino), ma è progressivamente erosa da un uso esagerato dell’inglese.

È un aspetto singolare: perché mai bisogna continuare a tradurre termini italiani in inglese, anche quando non ce n’è alcuna necessità? Ma vi sembra logico che per annunciare il primo grande punto di vaccinazioni italiano curato dai nostri militari (peraltro sospeso dopo poche ore per la crisi del vaccino Astrazeneca) lo si debba chiamare “Hub drive trough Esercito”? (Tra l’altro, perché allora “Esercito” e non  “Army”?)

L’esempio è banale, ma ci sono decine di parole, neologismi, sigle che non hanno alcun bisogno di essere tradotte. Pensate che i francesi il computer lo chiamano ancora “ordinateur” e se ne vantano.

Se l’Italiano perde terreno, anche l’Italia perde spazio.

Un altro aspetto dividente è quello dell’immigrazione: mentre ogni anno centinaia di migliaia di italiani (scolasticamente e tecnicamente qualificati) se ne vanno perché delusi dal nostro Paese, noi siamo aperti (anzi, apertissimi) ai nuovi arrivi: nel 2019  su 706.400 persone che hanno acquisito la cittadinanza di uno Stato membro dell’Ue ben 127 mila (il 18%) hanno conquistato la cittadinanza italiana, il 2,54% degli abitanti rispetto al 2% medio europeo. A queste percentuali vanno però aggiunte tutte le neo-cittadinanze italiane concesse ad altri cittadini europei (tra cui molti romeni e altri Paesi dell’Est) che non fanno “statistica”, ma sono “sostanza”: è fatale una conseguente diluizione del sentimento nazionale.

Altrove ottenere la cittadinanza è la fine di un percorso di inclusione, da noi è sostanzialmente un concorso burocratico. Alla fine la cittadinanza viene spesso negata o ritardata a chi la meriterebbe per la sua evidente integrazione, ma contemporaneamente viene concessa a persone (soprattutto in Sudamerica) che di “italiano” non hanno nulla, ma ambiscono soprattutto al passaporto europeo.

Un tema controverso e anche per questo mi è sembrato fuori luogo che Enrico Letta abbia riproposto proprio in questo momento la questione dello ius soli: convinzione o necessità di recuperare una tradizionale bandiera di sinistra per rinvigorire l’anemico programma del Pd?

Cavour non fece in tempo a vederla, ma se effettivamente disse “fatta l’Italia ora bisogna fare gli italiani”, va detto che 160 anni dopo siamo ancora in cammino.


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