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Il partito è diventato un autobus per le cariche pubbliche. La sinistra vista da Laforgia

Di Giulia Gigante

Il Pd che divora i suoi segretari, il rapporto con il Movimento 5 Stelle, la liquefazione di Leu, il rapporto malato tra sinistra e magistratura. Intervista all’avvocato penalista Michele Laforgia, fondatore de “La giusta causa”

Le dimissioni di Nicola Zingaretti hanno provocato uno shock in casa Pd. Le sardine occupano la sede del Nazareno, Enrico Letta abbandona Sciences Po per raccogliere i cocci di una comunità politica allo sbaraglio. Lascia la Rive Gauche, la riva sinistra della Senna, in attesa di essere proclamato segretario del Partito Democratico nel corso dell’assemblea prevista domani.

Ugo Sposetti, il custode purosangue del tempio comunista, critica il distacco sentimentale avvenuto tra la dirigenza democratica e la base, accusa Enrico Letta di aver distrutto i partiti, ricordando l’abolizione del finanziamento pubblico voluta dal suo governo nel 2014.

Insomma, ancora una volta, la maggiore forza politica del centro-sinistra italiano, sembra incapace di gestire la crisi interna e di far fronte alle priorità del Paese. Eppure, prima o poi, la sua dirigenza dovrà misurarsi nello scontro elettorale.

La sinistra sembra temere la sentenza delle urne, la destra no. Nonostante il caos e l’apatia dell’elettorato democratico, il centro-sinistra può ancora sperare di avere un destino?

Sarebbe un errore ricondurre quello che tumultuosamente sta accadendo nelle ultime settimane alla sola attualità, come se la crisi del Partito Democratico e del centrosinistra non avesse una storia. Non è così. Più d’uno ha ricordato che negli ultimi tredici anni ben cinque dei sette segretari del PD hanno lasciato il partito, qualcuno, com’è noto, per fondarne un altro.

Nel 2009 tra i candidati alle primarie c’era Adinolfi: non Beppe Grillo, la cui tardiva iscrizione fu respinta, bensì Adinolfi, l’attuale leader dell’ultraconservatore Partito della famiglia. Insomma, la crisi non è iniziata adesso. L’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti vi ha contribuito? Forse, ma certo meno della strampalata idea di far eleggere il segretario non dagli iscritti bensì dal corpo elettorale, previo pagamento di un ticket, e di prevedere, per statuto, che lo stesso segretario sia automaticamente candidato a Presidente del Consiglio, certificando l’identificazione del vertice del partito con il governo.

Non riesco a pensare a una forma più netta della liquidazione dell’idea stessa di partito: e cioè di una organizzazione collettiva che, se non diventa una ‘comunità di destino’, come si diceva un tempo, dovrebbe comunque accomunare uomini e donne unite da un sentire condiviso “per concorrere con metodo democratico alla vita nazionale” come recita la Costituzione.

Il partito oggi è un autobus per l’accesso alle cariche pubbliche: chiunque può salire e scendere, a seconda delle opportunità. Una declinazione poco più che formale della personalizzazione della politica, accelerata dalla elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di regione. Quanto al centrosinistra, è oggettivamente difficile persino individuarne il perimetro, dopo l’avvento del governo Draghi: e non minore confusione si registra a livello territoriale, dove sembra essere quasi del tutto scomparso il riferimento a un’area politico-culturale, se non omogenea, quantomeno chiaramente alternativa al campo delle destre.

Cosa è destra, e cosa si deve intendere per sinistra, oggi? E ha ancora un senso, dopo l’avvento dei populismi, il riferimento a un centro che sembra comprendere tutti e non significare più niente? Non credo che se ne possa seriamente discutere senza ragionare sulla concreta identità delle forze politiche, sulle scelte che dovrebbero distinguere un campo dall’altro. Il compito del prossimo segretario del PD sembra davvero titanico, in questo contesto, tanto più che la scellerata riduzione del numero dei parlamentari ha già generato la corsa al seggio per gli aspiranti candidati: un ulteriore fattore di instabilità e turbolenza, nelle fila dei dem.

Il rapporto tra Pd e M5S, saldato con la nascita del Conte II, è stato oggetto di un interminabile dibattito nel partito. Le differenze tra i due schieramenti si manifestano nei diversi campi d’azione e nella presenza o meno di una cultura politica di riferimento. Quale tipo di relazione dovrebbe instaurare il centro-sinistra con il M5S: un’alleanza elettorale o strutturale?

Prima ancora di prospettarsi in chiave elettorale o addirittura strutturale l’alleanza tra Partito Democratico e Movimento Cinque Stelle si è singolarmente affermata, omisso medio, come accordo di governo, peraltro in partenza senza una netta soluzione di continuità con la precedente maggioranza gialloverde. Va peraltro riconosciuto al Conte bis, almeno in alcuni settori, un sensibile cambio di passo, oltre che la gestione della terribile emergenza sanitaria, economica e sociale indotta dalla pandemia.

Per parte mia penso che il dialogo fosse indispensabile, dopo il drammatico risultato delle elezioni politiche del 2018, e debba continuare. Bisogna ammettere che il Movimento è stato capace di cambiare pelle, negli ultimi tre anni, abbandonando l’abbaglio antipolitico e l’equidistanza tra destra e sinistra con cui pure aveva conquistato un enorme successo elettorale. L’alleanza è una strada obbligata, anche per le prossime elezioni amministrative, ma a condizione che si lavori seriamente per la costruzione di una cultura politica comune e di una nuova classe dirigente.

Altrimenti anche in questa inedita versione il centrosinistra è destinato al declino e, ineluttabilmente, alla sconfitta. Basta vedere quello che è già successo: al primo sondaggio che vedeva il consenso elettorale del PD eroso dal “partito di Conte” l’alleanza è entrata in crisi e Zingaretti si è dimesso. Non una gran prova di resistenza, per un’alleanza che si vorrebbe irreversibile e strutturale.

Qui ci vorrebbe una domanda su Leu…

Liberi e Uguali è il convitato di pietra della coalizione, una sigla della quale non si conoscono esattamente gli attuali contorni. Di fatto, il progetto di una nuova organizzazione unitaria della sinistra è scomparso dagli schermi sin dalla notte dei – modesti – risultati elettorali, quando nessuno ebbe il coraggio di presentarsi in tv per commentare il voto.

Già dal 2018 le singole componenti, e i singoli parlamentari, sono andati ciascuno per la sua strada, abbandonando al loro consueto destino i militanti, gli elettori e le elettrici cui era stato promesso un futuro radioso di condivisione e partecipazione. Non ho sentito una sola parola di autocritica, in questi anni, su questo e mi chiedo cosa ne sarà alle prossime elezioni: che, prima o poi, arrivano.

Lei è Presidente e fondatore de “La Giusta Causa”, un movimento politico-culturale istituito dopo le elezioni politiche 2018, che opera su scala regionale e non solo. L’azione amministrativa e l’indirizzo politico del Presidente Emiliano risultano poco chiari, anzi presentano diverse contraddizioni. Dalle posizioni altalenanti su Ilva e Xylella, alle scelte trasversali intraprese sul terreno politico. Ci parli della situazione del centro-sinistra in Puglia.

Il centrosinistra, in Puglia, esiste solo al negativo e in campagna elettorale, come coalizione alternativa agli altri, che, come diceva Sartre, sono l’inferno. Abbiamo lavorato a lungo, come associazione, per affermare il primato delle idee sulla competizione muscolare delle primarie, ma alla fine ha prevalso la logica dell’appartenenza, non sempre virtuosa e spesso trasversale.

Il risultato non è stato brillante: Emiliano ha vinto le elezioni, con distacco, e alla fine ha cooptato una parte dei Cinque Stelle, ma l’azione di governo non è mai decollata. E il dibattito pubblico resta asfittico, mentre ancora non è chiaro il ruolo che intende svolgere, in Puglia e a livello nazionale, il Sindaco di Bari e Presidente dell’ANCI Antonio Decaro.

C’era un tempo in cui sinistra e giustizialismo non erano un binomio, bensì un ossimoro. Secondo il paradigma togliattiano, la magistratura è un ordine, non un potere. La progressiva crescita di Magistratura Democratica, la corrente dei magistrati di sinistra all’interno dell’ANM, gli anni di piombo e la bufera di “Tangentopoli”, hanno condotto i post-comunisti verso una difesa a spada tratta delle toghe.

Il primato della politica va a farsi benedire, e i magistrati presidiano i collegi elettorali. “La via giudiziaria alla vittoria elettorale” è un continuum da Antonio Di Pietro fino all’ex Guardasigilli Bonafede, il braccio operativo di Piercamillo Davigo. Quale posizione dovrebbe assumere la sinistra in ambito giudiziario? Cosa significa essere garantista?

La sinistra, in tutte le sue declinazioni, ha da tempo un rapporto assai tormentato con il potere giudiziario. È una questione culturale, prima ancora che politica, in cui sono progressivamente entrati in gioco diversi fattori. Togliatti era figlio di una ideologia che guardava con sospetto alla neutralità del diritto, sino a vedere con sfavore l’istituzione di una Corte Costituzionale non elettiva sovraordinata al potere politico.

Poi con i Pretori d’assalto, il terrorismo, la mafia e la lotta alla corruzione il paradigma si è rovesciato, sino a pensare alla magistratura, e in particolare alla magistratura requirente, come nuova classe dirigente, non solo nei momenti di emergenza. Il risultato, come si sa, non è stato brillantissimo né per i partiti politici, né per le correnti della magistratura.

È una condizione di difficoltà che perdura, evidentemente, anche perché da molto tempo anche in ambito giudiziario la battaglia delle idee è stata sostituita dalla lotta per il consenso: come si potrebbe spiegare, altrimenti, l’ascesa e la caduta di Palamara, con tutto quello che ne è seguito? La verità è che da molto tempo non si discute più, a sinistra e non solo a sinistra, delle garanzie, con le conseguenze che ne sono derivate e tuttora ne derivano per la stabilità dell’intero sistema.

Ritiene necessaria una riforma del processo penale e del sistema penitenziario?

Sono sempre spaventato quando, tra le riforme, si menzionano la giustizia penale e il carcere. Non mi pare ci siano le condizioni, nel Paese, per mettere mano a un sistema così delicato e complesso. Mi accontenterei, nel medio periodo, di un investimento serio sulle strutture giudiziarie, che certo non possono essere sostituite dal processo online, e sulle misure alternative alla detenzione, che, numeri alla mano, producono molte meno recidive della detenzione inframuraria.

È un problema di civiltà, ma anche di sicurezza: una pena che favorisce la reiterazione dei reati è intrinsecamente criminogena. E, in questo senso, sarebbe ora di mettere mano alla legislazione sulle droghe e sulla immigrazione clandestina, in cui la strada repressiva, evidentemente, non ha portato grandi risultati. Basterebbero queste poche cose – poche per modo di dire – per iniziare a porre rimedio anche alla lentezza dei processi.

Qual è la sua opinione in merito all’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense? La pandemia ha imposto delle modifiche alla sessione 2020. Ritiene che queste debbano divenire strutturali?

Penso che in questo momento l’esame di abilitazione sia l’ultimo problema della professione forense. Già da decenni superare l’esame regalava un titolo poco più che onorario, che non consentiva di esercitare in concreto la professione di avvocato. Dopo questo anno di lacrime e sangue, con gli studi che hanno continuato a chiudere, penso che sia arrivato il momento di ripensare seriamente alla formazione degli avvocati, e non solo alla conquista del titolo di avvocato.

Un anno di pratica non basta e spesso non serve a nulla, ci vorrebbe un percorso almeno in parte comune con i magistrati, come avrebbe dovuto essere con le scuole di specializzazione postuniversitarie. Ma così non è stato e le professioni forensi continuano a non avere una cultura comune.



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