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Stai zitta e altri pregiudizi da ribaltare in attesa dell’8 marzo

Libri e numeri fotografano il miraggio della parità nei “posti di comando”. Nonostante i dati demografici dell’Istat, dal 2011 ad oggi, certifichino che il 51% della popolazione totale è donna. Quante e quali sono le frasi “sessiste” che non vorremmo più sentire?

Quante confidenza ho raccolto in questi anni di donne, giovani e meno, che hanno raggiunto obiettivi importanti, carriere invidiabili nelle istituzioni, nella libera professione, nella magistratura. Confidenze che mai mi sarei aspettata da donne “forti”, di indiscussa competenza e professionalità, eppure sempre alla ricerca di conferme, di visibilità. Perché l’autorevolezza – come spiega Michela Murgia con il suo ultimo libro “Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più” – non deriva solo da quanto è interessante quello che dici, ma dalla possibilità che possa influenzare molte persone”. Non basta essere brave, bisogna anche avere occasioni e ribalte per dimostrarlo. (E di solito le donne ai vertici non deludono mai). E allora balza all’occhio, in attesa di celebrare anche quest’anno l’8 marzo, che la parità nei posti di comando, almeno a numeri, è ancora un miraggio.

I dati demografici dell’Istat, dal 2011 ad oggi, certificano che il 51% della popolazione totale è donna. Faccio un esempio concreto, partendo da ciò che conosco meglio. I dati dell’ultimo studio, aggiornato al 28 febbraio 2021, dell’Ufficio statistico del Csm (questo sì diretto da una donna) confermano che la magistratura è sempre “più rosa” (e scusate lo stereotipo ma nel libro non si spiega con che altro colore vada superato!). Su un organico di 9.552 magistrati, il 55% è donna, ma a guidare tribunali e procure sono ancora in prevalenza uomini. Al vertice degli Uffici giudicanti ci sono solo il 33% di donne e nelle procure si scende al 24%. Non benissimo se consideriamo che sono passati oltre 60 anni dalla sentenza della Corte costituzionale che riconobbe a Rosa Oliva – e a lei per tutte le donne – l’accesso ai concorsi pubblici. E che nel ‘63 ci fu il primo concorso in magistratura; nel ‘65 le prime 8 vincitrici donne e che oggi le magistrate sono più della metà del totale: 5.217 su 9.552.

Le donne che vincono il concorso in magistratura ormai sono il 10% in più dei colleghi uomini eppure quelle che dirigono gli Uffici sono sempre una netta minoranza. In attesa che il tempo colmi gradualmente il “gap gender” dovuto ad un handicap di oltre 50 anni di ritardo ai nastri di partenza (l’Associazione nazionale magistrati –allora si chiamava Agmi – nacque nel 1909 come Associazione generale fra i magistrati d’Italia).

La situazione non è differente nei grandi giornali. La scrittrice sarda Michela Murgia, nel 2018, lo ha documentato con una ricerca empirica basata sull’analisi delle firme di prima pagina dei due grandi quotidiani “la Repubblica” e il “Corriere della Sera. Per sei mesi, ogni mattina, ha cerchiato in rosso le firme delle donne e in nero quelle degli uomini, le ha fotografate e le ha postate sui social network, a partire da Twitter, con l’hashtag #tuttimaschi. Per dimostrare che la presunta onnipresenza femminile, nell’olimpo delle firme in prima, è solo una leggenda priva di riscontri nella realtà, e soprattutto nei numeri.

Il libro è un manifesto ragionato di tutto quello che non vorremmo più sentirci dire. A partire dai peggiori stereotipi, quelli più radicati e resistenti. Quelli che condizionano il pensiero delle donne viste dagli occhi degli uomini, e non solo.

È difficile non interrogarsi sulla necessità di parlarne. Sul dovere di analizzare il fenomeno non con il cannocchiale, ma con la lente di ingrandimento, a partire da ciò che ci è più vicino. Dall’esperienza di ciascuna di noi. Per esempio, dalla cultura e dal linguaggio.

Quante e quali sono le frasi “sessiste” che non vorremmo più sentire?

La domanda mi è sorta spontanea leggendo il libro, che fin dal titolo fa pensare a quanto siano ancora oggi radicati i più foschi pregiudizi. “Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più” è un manifesto dei luoghi comuni da ribaltare a partire dal linguaggio, sperando “che tra dieci anni una ragazza o un ragazzo, trovandolo su una bancarella, possa pensare sorridendo che per fortuna queste frasi non le dice più nessuno”.

E quello che – speriamo anche noi – avvenga molto prima.



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