Salvini incontrerà giovedì prossimo Vitkor Orbàn e Mateusz Morawiecki, e discuterà della possibile creazione di un nuovo gruppo nel Parlamento Ue. Gli avversari (soprattutto la sinistra) proveranno a dire che l’adesione salviniana al governo (europeista) Draghi è mera tattica, ma puntare su un nuovo raggruppamento è un atto intelligente e anche conveniente. La bussola di Corrado Ocone
Ma allora la Lega ha cambiato posizione sull’Europa e si è affrancata dal “sovranismo”, o no? È questa la domanda che in molti si porranno nel leggere la notizia dell’incontro di giovedì prossimo, a Budapest, di Matteo Salvini con Vitkor Orbàn, il primo ministro ungherese, e l’omologo polacco, Mateusz Morawiecki. In particolare, gli avversari (soprattutto la sinistra) proveranno a dire che l’adesione salviniana al governo Draghi è mera tattica, ma che in verità “il lupo” avrà pure “perso il pelo ma non il vizio”.
Credo che sia opportuno fare un discorso più generale, politico e ideale insieme. Ieri, nel corso della presentazione del rapporto Ispi, Enrico Letta ha provocato Salvini dicendo che, se la Lega si avvicinasse al gruppo dei Popolari europei, “per l’Italia sarebbe una notizia positiva”. Salvini ha risposto stizzito, in quanto ha capito al volo la perfidia che l’ex democristiano Letta aveva profuso nelle sue parole. Prima ancora che la Lega, quell’incontro oggi a non volerlo è proprio il Ppe, che si è ancor più appiattito sul versante “progressista” dopo l’espulsione di Orbàn dalle sue fila.
Alla Lega apparentemente si presentavano allora due vie: o restare in quello che resta il gruppo degli “appestati”, di chi cioè non toccherà mai palla in Europa, quello con Marine Le Pen (che però, come ci ricordava Gennaro Malgieri su queste pagine, sta tentando anche lei di eliminare le ultime incrostazioni “antisistema” presenti nel suo partito) e i nazionalisti tedeschi di estrema desta dell’AfD (“Identità e democrazia!” si chiama il gruppo); oppure passare nel raggruppamento dei “Conservatori e riformisti europei” presieduto da Giorgia Meloni. Per diversi motivi, si trattava di due soluzioni impraticabili: la prima perché contrastante con la linea di “reinserimento nel circolo” che è stata fatta propria dalla Lega con l’avallo dato al governo di Mario Draghi in Italia; la seconda per ovvi motivi di sovrapposizione con il partito di Meloni.
Puntare su un nuovo raggruppamento è perciò un atto intelligente e anche conveniente (avere un gruppo significa anche avere fondi e agibilità); ma diventerebbe addirittura una mossa geniale se in esso entrassero a far parte due partiti controversi ma pur sempre di governo nei loro rispettivi Paesi come l’ungherese Fidesz e il polacco “Diritto e Giustizia”. Fra l’altro due partiti di ispirazione cristiana e (almeno quello polacco) fortemente contrari alla Russia di Vladimir Putin. Certo, le criticità dell’operazione, qualora arrivasse ad una conclusione, non mancano: da una parte sarebbe difficile governare l’attrito che sorgerebbe con Meloni, soprattutto se dal suo gruppo si sfilassero i polacchi; dall’altro, il tema dell’identità (e degli obiettivi) della nuova formazione sarebbero ineludibili ed esigerebbero una risposta lineare. Con ripercussioni, per la Lega, anche in Italia.
L’adesione al modello di una “democrazia cristiana” di stampo conservatore avrebbe infatti un senso, a mio avviso, solo se essa si colorasse di un’impronta anche liberale, nella tradizione che in Italia fu di Alcide De Gasperi e Luigi Sturzo e che nella vecchia Dc fu presto sopraffatta dall’anima di sinistra degli Amintore Fanfani o degli Aldo Moro. Ciò però imporrebbe alla Lega una netta presa di distanza da certe “fantasie” orbaniane come la “democrazia illiberale”. Che infatti la democrazia liberale classica e occidentale, cioè parlamentare e costituzionale, sia in crisi, e vada radicalmente ripensata, è un fatto innegabile; ma che si possa gettare il bambino con l’acqua sporca, e cioè le vecchie istituzioni dello Stato di diritto (dalle assemblee rappresentative all’indipendenza della magistratura, fino al pluralismo dei mezzi di informazione e nell’istruzione), senza avere ancora alternative migliori e praticabili, è un altro.
Che poi, surrettiziamente, la koiné europea dominante, che coinvolge ahimé anche il Ppe per molti aspetti, faccia passare per “Stato di diritto” anche una concezione dei “diritti”, al plurale, fortemente orientata in senso progressista, e discutibile in quanto appartenente al campo delle opinioni e non a quello dei principi, è ancora un’altra e fondamentale questione. E su questo terreno dovrà cercarsi la partita “altrimenti europeista” degli ex sovranisti.
Se la nuova compagine nascesse, e se presenza della Lega riuscisse a determinare una precisazione identitaria che vada in questa direzione, sarebbe un bene per tutti. Per l’Italia e per il sempre più chiaroscurale “progetto europeo”.