“Mosul… è come un seme, se lo curi, gli dai acqua, gli dai un buon ambiente in cui vivere, sboccerà un giorno”. A dirlo è stato il prof. Alì Al Baroodi in Iraq durante la visita del pontefice. È un sogno geopolitico? Non tanto se si considerano i dati, gli interessi in gioco, ma prima di tutto la dignità delle persone. Dignità che passa dal sapere e dal lavoro il cui fine ultimo è (o dovrebbe essere) la libertà. E senza scuola (in qualunque declinazione essa si voglia intendere) non c’è libertà che tenga. L’intervento di Angelo Lucarella, avvocato e vice presidente coord. commissione Giustizia del Mise
Riaccendere la speranza è il mestiere (mi si consenta il termine) più difficile in questo mondo. Nel viaggio in Iraq il Sommo Pontefice ha dato prova di grande sforzo al fine di portare in quella terra antica, martoriata e violentata, un messaggio di riconciliazione tra la gente comunicando il valore della fratellanza.
Questioni, quest’ultime, che hanno una radice comune di fondo: l’investimento nell’educazione. In primis scolastica.
Il come, il perché, quanto e con quale visione programmatica gli Stati riescano a mettere al centro l’individuo, in una dimensione culturale aperta, è sicuramente la chiave di lettura per scegliere quotidianamente il ripudio di quelle declinazioni interpretativo socio-politico-religiose che portano alla cosiddetta “teoria del nemico”.
Colpisce molto la visita a Mosul (raccontata, in particolare, con il reportage di Francesca Mannocchi andato in onda il 10 marzo scorso su La7 per Atlantide di Andrea Purgatori): città investita dall’onda Isis che, anche grazie a gente come il prof. Ali Al Baroodi e padre Olivier Poquillon, cerca faticosamente di ricostruire una identità multietnica e dal chiaro segno multiculturale.
Mosul, nel Kurdistan iracheno, è quel luogo nel cuore della Mesopotamia che ha registrato la nascita della prima scuola aperta alle donne. Cosa che nel mondo moderno-contemporaneo avanzato sarebbe, tuttavia, incomprensibile da coloro che non considerano anche la storia dei popoli (non dimentichiamo che in Italia, ad esempio, alle donne è stato riconosciuto il diritto al voto nel secolo scorso).
Sempre a Mosul è stata stampata la prima grammatica curda, la prima bibbia in arabo ed aramaico. La città è stata la prima, sempre nell’area mesopotamica, anche per aver posto l’orologio regalato dall’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, sul punto più alto (dopo i minareti delle Moschee ed i campanili delle Chiese) ove nacque la prima stamperia per la diffusione di libri benché non ci fossero, paradossalmente, sufficienti insegnanti.
La visita di papa Francesco, pertanto, vale a significare che occorre seminare proprio su tre direttrici: eguaglianza, educazione e rispetto delle culture.
Elementi di “pre-requisito” senza i quali non si può ripristinare la fiducia tra le persone di quel luogo tanto impaurite di come, vergognosamente, l’uomo possa essersi tuffato nel terrore invece che nella pace: il ricordo della figura di Abramo (che unisce le tre religioni monoteiste) è stato, infatti, uno dei passaggi chiave nel viaggio del pontefice per derubricare dai cuori la storia del terrore.
Per di più si consideri che l’Isis, appositamente, ha distrutto i luoghi di culto più importanti: Moschee comprese.
Non è un caso che ad accogliere il papa a Mosul ci sia stata l’opera di un giovane artista della città: una croce al cui interno c’erano raffigurati tutti i monumenti distrutti dall’Isis.
L’artista, sembra una coincidenza, si chiama Omar: nome la cui radice etimologica risiede nelle parole “vita, fiorente, prosperoso, ecc.” e che, sostanzialmente, abbraccia le buone intenzioni delle tre religioni monoteiste.
Un abbraccio che a Mosul era rappresentato da un’immagine insuperabile: la vicinanza, quasi attigua, tra il minareto di una Moschea ed il campanile di una Chiesa. Entrambi però distrutte dal maledetto terrorismo che, d’altronde, etimologicamente sta proprio a significare impaurire, atterrire, far tremare. Concetti, quest’ultimi, esatti contrari del termine fiorente di cui l’artista Omar è stato messaggero con la sua opera di benvenuto al Sommo Pontefice.
Pur derivando dal verbo latino terreo, il terrorismo non ha la stessa funzione dell’azione che, ad esempio, pone in essere il contadino o l’agricoltore smuovendo la terra: la prima è un’azione che non fa germogliare alcunché in quanto, anzi, distrugge e porta all’aridità; la seconda azione che si sostanzia nell’aratura predispone bene per la semina e la raccolta.
Ecco come le parole hanno un significato preciso se ci si sofferma per un attimo. Senza di esse non si potrebbe trasmettere alcuna educazione alla speranza. Già, perché è l’educazione il motore che spinge le genti a guardare il futuro diversamente.
E quando si utilizza il termine educazione non ci si riferisce alle buone maniere (che sono solo una delle componenti educative), ma a quel complesso processo che serve a condurre le persone verso una dimensione di sviluppo sociale, spirituale e materiale tendenti alla pace ed al benessere.
In quanto processo di sistema, l’educazione implica necessariamente, come pre-condizione attuativa, due cose: il programma e l’investimento.
In Iraq, al di là della presenza significativa del papa, è successo qualcosa che oggi più che mai deve aprire alla semina di una nuova terra: quella della fiducia educativa.
Cosa che solo la scuola, nell’accezione più profonda legata alla cultura ed alla libertà delle persone in un’ottica di insieme, può fare al fine di allontanare per sempre il pericolo del terrore.
Cosa c’entra la questione irachena sul piano geopolitico e cosa rappresenta, in specie, per l’Italia? Si parta dal fatto che il ruolo dell’Iraq, soprattutto con la sconfitta dell’Isis, è il punto irrinunciabile da cui far derivare, in quella zona geografica, un nuovo percorso basato su regole, formazione, lavoro.
Dati Oec (Observatory of Economic Complexity) al 2019 dimostrano che l’Italia è il quinto Paese al mondo verso cui la nazione irachena esporta maggiormente (petrolio, oro, pelli, vegetali, ecc.) dopo Cina, India, Sud Corea e Stati Uniti; d’altra parte l’incremento di esportazioni dallo stivale verso l’Iraq è pari al 39% dal 1995 al 2019.
Perché non diventare il primo partner culturale allora? Perché non investire sul rispettivo capitale umano per ridare al Paese iracheno la possibilità di sognare uscendo dalla povertà ed aridità politico-sistematica?
Il monito che si ricava dal viaggio del pellegrino pontefice è soprattutto in chiave geopolitica: a parte il Covid, la comunità internazionale deve occuparsi dei popoli in sofferenza con la pazienza del medico che cura le ferite e con la persuasione di colui che usa l’ascolto educativo.
In Iraq al 2015 erano circa 2 milioni di bambini esclusi dalla frequenza scolastica (dati Unicef). Un dato che deve far riflettere proprio sul piano politico. Come si possono, quindi, immaginare i rapporti diplomatici nonché commerciali dei prossimi cinquant’anni senza che il Paese mediorientale (così come tanti altri in situazione di guerra o post-bellica) ridisegnino sé stessi a trazione culturalmente predisposta?
Sulla scia di quanto sinora detto, si chiude questa breve analisi con una frase decisamente piena e colma di realistica umanità: “Mosul… è come un seme, se lo curi, gli dai acqua, gli dai un buon ambiente in cui vivere, sboccerà un giorno”. È stato il prof. Alì Al Baroodi a dirla durante il reportage su richiamato.
Un nome teoforico (quello del docente iracheno che mai ha abbandonato la sua terra) che denocciolato dell’accento finale diventa in italiano “Ali”: in entrambi i casi si tratta di qualcosa che accomuna specie se si pensa al divino ed al celestiale.
Saranno pur coincidenze, ma rimane fermo il valore assoluto ed universale della semina paziente per ottenere un frutto illuminato. È un sogno geopolitico? Non tanto se si considerano i dati, gli interessi in gioco, ma prima di tutto la dignità delle persone. Dignità che passa dal sapere e dal lavoro il cui fine ultimo è (o dovrebbe essere) la libertà.
E senza scuola (in qualunque declinazione essa si voglia intendere) non c’è libertà che tenga.
Checché se ne dica la libertà sboccia, come direbbe il coraggioso professore di Mosul, in quell’ambiente buono in cui vivere.