Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Se l’azienda è sostenibile, non è detto che lo sia la poltrona del CEO

Di Andrea Calef e Andrea Roncella
danimarca

La partita per il controllo delle imprese passa anche dalla sostenibilità. Il caso Danone è un bagno di realismo rispetto al capitalismo responsabile. Se è vero che molti azionisti approvano un un approccio purpose-driven e sostenibile dell’impresa, alla fine per giudicare l’operato dei manager contano ancora i risultati. L’analisi di Andrea Calef e Andrea Roncella della Scuola Politica “Vivere nella Comunità”

La crisi finanziaria del 2008 ha segnato uno spartiacque nella storia recente, i cui effetti in termini di ripensamento dei comportamenti del mondo del business si stanno dispiegando in questi ultimi anni. L’esplosione della pandemia COVID-19 non ha fatto altro che rafforzare questo trend.

In questo tentativo di ripensare il capitalismo, il settore finanziario è una delle aree che più sta subendo mutamenti. Biasimato nel passato recente come una di quelle forze autoreferenziali ed anonime responsabili dei malfunzionamenti economici (Zingales 2015; Lo 2016), quello stesso mondo sembra oggi elemento indispensabile per realizzare un’economia almeno in parte più sostenibile e ‘giusta’.

L’etichetta all’interno della quale questa rivoluzione sta avvenendo è quella di “finanza sostenibile”, il cui termine racchiude un ampio ventaglio di pratiche e strategie volte ad integrare un legittimo ritorno finanziario dell’investimento di capitale con delle valutazioni di più ampio respiro riassunte nell’acronimo inglese ESG (environment, social and governance). La valutazione delle dimensioni aziendali legate all’ambiente e al rispetto degli stakeholder di riferimento, oltre alla più tradizionale capacità di gestione dell’impresa (la cosiddetta “corporate governance”) è sempre più oggetto di attenzione da parte degli azionisti sia istituzionali che privati nel momento prendere le loro decisioni di investimento.

Le ragioni del graduale abbandono di una logica esclusivamente rivolta al rendimento finanziario si deve per lo meno a due ordini di considerazioni. Il primo è legato a valutazioni sul rischio sistemico che i grandi fondi istituzionali non possono più non considerare, laddove la concentrazione di proprietà è cresciuta in maniera vertiginosa rendendo impossibile non interessarsi delle problematiche globali (Hirst e Bebchuk 2019). La seconda risponde alla necessità di rispondere ad una crescente pressione sociale da parte dei cittadini che vedono le grandi imprese come giocatori importanti per risolvere le questioni sociali più rilevanti dei giorni d’oggi.

I fondi istituzionali che canalizzano i risparmi di investitori più piccoli devono quindi rispondere a questa richiesta di maggiore attenzione ai valori dei propri azionisti nel momento in cui prendono in considerazione le opzioni di investimento (Ryan 2021). La finanza sostenibile, che vede giocare un ruolo preponderante da parte degli shareholder – sempre più ‘attivi’ e coinvolti nell’intraprendere attività di engagement con i soggetti investiti – è solo un lato della medaglia. A fronte di un maggiore sforzo da parte degli azionisti nell’estendere la responsabilità dei loro investimento, i manager non sono rimasti indifferenti e hanno anzi cercato di intraprendere una serie di azioni volte a neutralizzare l’attivismo di azionisti giudicato troppo invasivo; in questo senso si potrebbe leggere per esempio lo statement del US Business Roundtable del 2019 che ha visto i CEOs delle maggiori imprese nordamericane ribadire la necessità di uno “stakeholder capitalism” (Bebchuk e Tallarita 2020).

Pertanto la sfida per il controllo effettivo delle imprese che vede manager desiderosi di tenere le redini dell’impresa ben salde tra le mani e azionisti pronti a esercitare i propri diritti si arricchisce di una nuova dimensione: quella della sostenibilità.
La partita è tesa e, nonostante il fine di un business più ‘sostenibile’ auspicato da CEOs e azionisti possa coincidere, non è detto che vi sia una visione comune sui mezzi. L’esempio più recente di questo scontro è rintracciabile nella vicenda che ha visto il CEO di Danone, Emmanuel Faber, essere defenestrato dalla guida della più grande impresa al mondo con lo status di B-Corp, uno standard che certifica lo stakeholder engagement nelle aziende.

Proprio l’uomo che aveva sposato il modello multi-stakeholders e l’idea della purpose-driven corporation è stato accompagnato alla porta da una campagna di critiche guidata dagli azionisti attivi Artisan Partners e Bluebell Capital Partners. Questi ultimi, lungi dall’essere hedge fund speculativi, risultano fervidi sostenitori delle politiche ESG e firmatari della UN PRI (Principles of responsible investing), l’associazione sotto il cappello delle Nazioni Unite che riunisce i gestori di fondi per l’investimento responsabile. L’indiscusso impegno in termini di sostenibilità di Faber non è bastato a salvarlo dalle critiche legate alla scarsa performance in termini finanziari che ha portato Danone a restare indietro rispetto a competitor quali Unilever e Nestlè.

La vicenda Danone-Faber permette di fare un bagno di realismo rispetto alle tante parole che recentemente si spendono sui temi di capitalismo responsabile. Due lezioni in particolare si possono trarre da questa storia: se è vero che gli azionisti non sono a priori contrari ad un approccio purpose-driven e sostenibile dell’impresa – lo dimostra il fatto che il passaggio a B-Corp della Danone risale a solo un anno fa – è vero anche che il solo ‘purpose’ non è sufficiente se a questo non si accompagnano rendimenti competitivi.
La partita per il controllo delle imprese entra nel vivo e la dimensione della sostenibilità è un ulteriore fronte di analisi e giudizio.

×

Iscriviti alla newsletter