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Ue-Usa, istruzioni per un’alleanza tech. Scrivono Cerra e Boccardelli

Di Rosario Cerra e Paolo Boccardelli

Se Stati Uniti ed Europa non riusciranno a realizzare a breve un accordo su comuni regole sul digitale gran parte del pianeta potrebbe adottare modelli e regole promosse da sistemi autarchici a loro uso e vantaggio. L’analisi di Rosario Cerra, presidente Centro economia digitale e Paolo Boccardelli, direttore Luiss business school e membro Comitato scientifico Ced

L’elezione di Biden offre alle due sponde dell’atlantico una grande opportunità per costruire il futuro delle democrazie liberali occidentali e delle loro economie nella tecnosfera. Ma se Stati Uniti ed Europa non riusciranno a realizzare a breve un accordo su comuni regole sul digitale gran parte del pianeta potrebbe adottare modelli e regole promosse da sistemi autarchici a loro uso e vantaggio. La geografia fisica ha sempre definito le primarie strategie di un paese nei secoli passati, da oggi a questa andrà obbligatoriamente sommata anche la geografia digitale.

E la geografia digitale nelle due sponde atlantiche vede un’America che si è sottratta ai colloqui presso l’Ocse su come tassare i giganti della tecnologia e un’Europa che, attraverso la sua Corte di giustizia, ha annullato l’accordo “Privacy Shield” tra Ue e Usa minando la base giuridica su cui i dati personali attraversano l’Atlantico. Ma proprio la nuova amministrazione americana, attraverso le parole di apertura alla digital tax della sua segretaria al Tesoro Janet Yellen, sembra disponibile a un confronto su questi fronti.

In questo quadro l’Europa, priva di “grandissimi campioni tecnologici” gioca il proprio consapevole ruolo sul lato del “mercato” e dei “cittadini” attivando il ruolo e gli strumenti del “regolatore”, forte della sua cultura e capacità giuridica dimostrata già concretamente con il Gdpr.

Allo scenario appena descritto si è aggiunta la pandemia che ha evidenziato e accelerato tra gli Stati europei la necessità strategica di una propria “sovranità tecnologica”.

Un tema ancora in corso di perfezionamento su cui si dibatte in tutto il continente per definirne, oltre al concetto, le sue conseguenze prettamente operative e su cui il Centro economia digitale, in collaborazione con le più importanti corporation italiane, sta per presentare e fornire al governo italiano uno studio rilevante.

Il primo esempio concreto di questa nuova dottrina in divenire è Gaia-X. Il cloud federativo europeo lanciato a metà dell’anno scorso da Francia e Germania. I vari membri che partecipano accettano specifiche regole condivise, la più rilevante delle quali è la “portabilità dei dati” ovvero la possibilità per i clienti di scegliere dove conservare i loro dati e di muoversi liberamente verso i concorrenti dei fornitori.

Gaia-X è particolarmente importante per l’Unione europea perché crea un contenitore di dati sottoposto direttamente alla regolamentazione di Bruxelles con l’obiettivo di dare ai cittadini europei maggiori diritti su come i loro dati vengono davvero utilizzati.

Un’ulteriore prova di collaborazione possibile sul piano tecnologico e di sovranità è di questi giorni. Tim ha siglato un Memorandum of understanding (MoU) con Deutsche Telekom, Orange, Telefónica e Vodafone Group per promuovere la tecnologia Open radio access network (Open Ran) per lo sviluppo delle reti 5G.

Questa tecnologia si fonda su un modello di mercato delle telecomunicazioni basato su standard di accesso aperto che garantisca l’interoperabilità. L’obiettivo è diminuire la dipendenza da pochi fornitori, incentivando così l’innovazione e riducendo i costi per la creazione di nuove tecnologie. Con l’O-Ran, oltre a una maggiore sicurezza delle reti, si aumenta l’indipendenza tecnologica degli operatori e dei Paesi europei nei confronti dei colossi cinesi.

Ma le sfide per la sovranità tecnologica, non solo nel campo digitale, sono molte e invocano una collaborazione tra Stati membri della Ue, ma anche tra settore pubblico e settore privato, tra istituzioni (soprattutto nel campo della ricerca scientifica e tecnologica) e aziende. Con riferimento a questo aspetto, tuttavia, il dibattito è molto ampio e controverso. E analogamente gli orientamenti dei governi assumono caratteristiche diverse, come potrebbe accadere già nel passaggio dal governo Conte al governo Draghi nel nostro Paese.

Se nella prima parte del ‘900 la teoria predominante dello Stato era quella di tipo liberista, successivamente sono emerse nuove esigenze che hanno richiesto un intervento statale volto a garantire lo sviluppo economico dapprima sottovalutato.

Comunque, i filoni tradizionali si dividono tra sostenitori dello Stato Imprenditore e Innovatore, che si basa sul fondamentale assunto dell’impossibilità degli attori economici privati di realizzare decisioni (e soprattutto investimenti) in grado di conseguire un’adeguata efficienza allocativa, e sostenitori dello Stato regolatore, che ha il compito di costruire un efficace sistema di regolamentazione dell’iniziativa privata nell’economia al fine di incentivare comportamenti virtuosi volti alla creazione del valore e alla distribuzione equilibrata dello stesso tra tutti gli stakeholder. Di recente, la visione dello Stato come catalizzatore di investimenti e politiche è associata alla possibilità di realizzare quella che nella Ue viene definita strategia di specializzazione intelligente, attraverso il finanziamento di programmi di ricerca precompetitiva.

Le teorie che di tanto in tanto hanno raccolto l’uno o l’altro consenso, lasciano a nostro parere spazio a un compito ancora più sofisticato dello Stato: quello di agire come un orchestratore che conosce gli strumenti dell’orchestra economica e sociale ed è in grado di stimolare la produzione della miglior musica.

Questa idea di Stato orchestratore, che dovrà attraverso l’investimento pubblico mettere a disposizione strumenti utili ai veri musicanti, cioè gli operatori privati, appare fondamentale per accompagnare la trasformazione, riconversione e ridisegno del sistema industriale europeo, ma anche per mettere in campo nello sforzo di cooperazione tra Stati della UE e tra operatori privati e pubblici una strategia di sviluppo tecnologico in quelle aree cruciali, come il digitale, nelle quali è fondamentale riguadagnare una sovranità almeno europea.

Tornando al digitale e alla necessità di recuperare almeno in parte il controllo della sua evoluzione, i temi su cui le due sponde atlantiche devono trovare assolutamente una mediazione strutturale sono due, concorrenza e privacy, sul resto si può anche essere più laschi.

L’accordo dovrebbe essere interesse di entrambe le aree con l’obiettivo di creare un digital market con cui primeggiare e veicolare nel mondo non solo servizi e prodotti ma anche valori liberali. Il che porterebbe la Cina consapevolmente verso un impegno cooperativo.

Tuttavia, senza un vero ruolo attivo nello sviluppo di tecnologie e soluzioni l’Europa verrà sempre vista solamente come un grande e ricco mercato e non sarà del tutto indipendente dalle scelte operate altrove. La sfida, per gli anni a venire, è quella di guadagnare posizioni su questo terreno, ridurre il divario fra ingegno e capacità industriale e ridisegnare nuovi equilibri di sovranità.

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