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Se l’Ue invecchia, può traballare la Nato. Lo Prete spiega perché

Ultimi dati Eurostat: Ue sempre vecchia, Italia Paese più anziano. Marco Valerio Lo Prete (Tg1, autore di “Italiani poca gente”) spiega perché un elettorato più in là con l’età potrebbe privilegiare stanziamenti per il welfare e la sanità, anche a discapito di investimenti per difesa e interventi militari all’estero. Un modello? Il Giappone, ecco perché

Nel 2020 il 20,6 per cento della popolazione dell’Unione europea aveva oltre 65 anni, secondo i dati pubblicati questa settimana da Eurostat. In un decennio la popolazione con più di 65 anni è aumentata del 3 per cento. Numeri che non possono non preoccupare il Vecchio – è proprio il caso di dirlo – continente. E anche l’Italia, visto che il nostro è lo Stato membro più anziano, con il 23,2 per cento della popolazione sopra i 65 anni.

Formiche.net ha parlato di questi numeri con Marco Valerio Lo Prete, giornalista al Tg1, autore con Antonio Golini di “Italiani poca gente” (Luiss, con prefazione di Piero Angela).

Che cosa significa il dato “europeo” in chiave geopolitica?

L’allungamento della speranza di vita media alla nascita è uno dei grandi successi della nostra civiltà europea che, almeno in questo campo ha quasi una primazia, anche se la stessa tendenza riguarda per fortuna gran parte del genere umano. In Europa, dal 1960 a oggi, l’aspettativa di vita è aumentata ancora di 10 anni, sfiorando gli 80 anni tra gli uomini e superandoli nettamente nel caso delle donne. Premesso ciò, una popolazione mediamente anziana può svelare certe sue fragilità in contesti straordinari come quello pandemico: nei 27 Stati dell’Unione europea i decessi hanno raggiunto quota 550.000 per colpa della pandemia.

Secondo i calcoli dell’agenzia di stampa internazionale Reuters, che nella categoria “Europa” inserisce anche Regno Unito, Russia e altri 22 Paesi, i morti per Covid-19 nel nostro continente hanno superato il milione. Ciò equivale al 35,5% dei decessi per Covid-19 di tutto il mondo, a fronte del 30,5% dei casi di positività ufficialmente rilevati sempre a livello globale. Un eccesso di mortalità, dunque, che può essere legato in parte a fattori anagrafici. Tuttavia un’eventuale lettura geopolitica del fenomeno demografico dovrebbe partire da squilibri di fondo già esistenti nella popolazione e che la pandemia sta soltanto aggravando.

Ossia?

La pandemia infatti da una parte fa diminuire – speriamo momentaneamente – la speranza di vita media, dall’altra sembra destinata a ridurre una natalità già bassa. Alla vigilia di questo evento epidemico, infatti, il tasso di fecondità medio, cioè il numero medio di figli per donna, era pari a 1,55 nell’Unione europea, decisamente sotto il valore di 2,1 richiesto per mantenere stabile una popolazione (in assenza di immigrazione). Gli squilibri demografici influiscono sul peso geopolitico di un Paese o di una comunità di Paesi innanzitutto indebolendo l’economia. In pochi hanno commentato un dato clamoroso, elaborato di recente dalla Commissione europea.

Quale?

Quest’anno potremmo aver raggiunto il numero record di lavoratori con passaporto europeo nella storia. D’ora in poi il loro numero sarebbe destinato a diminuire. Secondo le attuali tendenze demografiche, gli europei di età compresa tra i 15 e i 65 anni sono 265 milioni; nel 2050, diventeranno 230 milioni; nel 2070, 220 milioni. Più o meno braccia, ai nostri giorni, non sono automaticamente sinonimo di maggiore o minore crescita economica. Ma oltre alle braccia, contano i cervelli. Secondo alcuni studi, per esempio, innovazione e creatività e assunzione di rischi sono solitamente associate a un’età anagrafica più bassa. Una popolazione mediamente più anziana è anche una popolazione meno innovativa?

Non è da escludere. Per certo, secondo molti economisti, un numero decrescente di lavoratori e un numero crescente di pensionati può spingere un Paese a spendere di meno e risparmiare di più. I modelli di crescita dunque variano col mutare delle popolazioni e non pochi analisti, per dire, intravvedono proprio nell’invecchiamento uno dei fattori decisivi che spinge con forza la Germania a perseguire una crescita guidata dall’export. Infine, identificherei un altro legame tra demografia cangiante e peso geopolitico: un elettore mediano sempre più anziano ha priorità diverse rispetto a quelle di un elettore mediano più giovane.

Il costo politico di certe riforme aumenta, si pensi a una riforma delle pensioni che contempli la situazione precaria dei lavoratori più giovani. Lo stesso succede quando agli elettori si chiede di compiere scelte nella destinazione delle risorse: un elettorato più in là con l’età, per esempio, potrebbe privilegiare stanziamenti per il welfare e la sanità, anche a discapito di investimenti per difesa e interventi militari all’estero. Tutto ciò non è estraneo alle annose tensioni tra Stati Uniti e Europa sul diverso impegno economico profuso nel sostenere la Nato.

E guardando al Next Generation EU?

Il fatto che la Commissione europea abbia scelto di ribattezzare un programma economico straordinario con l’espressione Next Generation EU può essere considerato un segnale positivo, di attenzione appunto verso le future generazioni. Allo stato dell’arte, però, Next Generation EU è sinonimo di un maggiore indebitamento pubblico che peserà su un numero sempre più esiguo di Europei.

Oggi infatti nell’Ue a 27 ci sono 447 milioni di residenti, diventeranno 449 milioni tra cinque anni, poi inizieranno a diminuire tra dieci anni, e la previsione è che – nonostante l’immigrazione – scendano a 424 milioni tra cinquant’anni. Se quindi questo programma straordinario vorrà davvero contribuire a ridurre gli squilibri economico-demografici, dovrà contemplare riforme e stanziamenti a favore delle future generazioni e inserirsi in un quadro generale di riforme che nel breve termine accrescano la produttività complessiva del nostro sistema, e incentivino la partecipazione di donne e anziani al mercato del lavoro.

Come dicevamo prima, lo Stato membro più anziano è l’Italia. Che cosa significa per il ruolo del nostro Paese nell’Unione europea?

L’inverno demografico è alle porte per tutto il continente, ma soltanto in Italia questa nuova stagione avrà il potere di accentuare praticamente tutti i vizi di un’economia già sclerotizzata: difficoltà nel cogliere le innovazioni tecnologiche, incremento costante del debito pubblico, crescente difficoltà politiche a mettere mano a dossier spinosi come quello delle pensioni.

Siamo di fronte a una nuova spietata versione della Legge di Murphy: considerate le nostre debolezze strutturali, con questa demografia, se qualcosa potrà andare male per l’Europa, per l’Italia andrà anche peggio. Senza contare che questa poco invidiabile “leadership” ha già qualche effetto concreto. Prendiamo l’esempio dell’istituzione economica oggi più potente della moneta unica, quella cui la maggior parte degli osservatori attribuisce il contributo decisivo per l’uscita dalla crisi iniziata nel 2009: la Banca centrale europea.

Un attimo. Che cosa c’entra la demografia con la Bce?

Provo a spiegarlo. Perché la Germania conta più di tutti gli altri Paesi negli uffici della Bce a Francoforte? Certo, pesano tradizione, autorevolezza e capacità di tessere alleanze fra cancellerie. Ma soprattutto il maggior peso specifico della Germania si fonda sul fatto che le quote di partecipazione e alcuni diritti interni alla Bce sono calcolati a cadenza quinquennale, da statuto, secondo uno schema che riflette il peso percentuale di ogni Stato membro rispetto alla popolazione totale e al prodotto interno lordo dell’Ue.

L’Italia, diventata negli ultimi dieci anni decisamente più “leggera” in termini di Pil nell’Ue e rimasta a malapena stabile in termini di popolazione, è stata penalizzata in occasione della redistribuzione delle quote di capitale della Banca centrale europea entrate in vigore nel 2019. Il nostro Paese infatti ha perso terreno rispetto alla Germania che ha guadagnato molto in termini di Pil e ha perso pochissimo dal punto di vista demografico, o alla Francia che è rimasta stabile in termini di Pil e ha guadagnato qualcosa in termini di popolazione.

Lunedì prossimo, 29 marzo, si terrà un evento organizzato dal think tank Ethos dell’Università Luiss e dall’ambasciata del Giappone in Italia per parlare delle sfide demografiche comuni tra i due Paesi, con la partecipazione del presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo. Ecco, il Giappone è un altro Paese “vecchio” che però viene citato come modello. Può esserlo per l’Italia?

Italia e Giappone sono attualmente i due Paesi più anziani del pianeta, fra i primi Paesi avanzati inoltre a essersi confrontati con un calo drastico delle nascite. Il Giappone, occorre dirlo, non ha ancora trovato la ricetta perfetta per ristabilire un equilibrio demografico. Eppure questa grande democrazia asiatica ha qualche utile insegnamento per noi. Innanzitutto, la questione demografica in Giappone non è relegata ai dibattiti fra soli esperti, ma informa da anni il confronto pubblico e le principali decisioni politiche e imprenditoriali. Inoltre il Giappone negli ultimi anni ha dispiegato politiche pubbliche che meritano di essere studiate.

In estrema sintesi, ha ripensato profondamente il sistema di assistenza per la fascia più anziana della popolazione, ha premuto sull’acceleratore dell’innovazione tecnologica per attutire gli effetti dell’invecchiamento della popolazione e della forza lavoro in particolare, ha messo in campo la cosiddetta “Womenomics” per colmare il gap di occupazione e di salario tra uomini e donne. Infine, oltre agli aiuti strutturali per la natalità, ha avviato passi decisi per favorire una immigrazione altamente qualificata. L’esperienza del Giappone conferma che quando si tratta di demografia non esiste una “bacchetta magica”, e che minimizzare – o addirittura ignorare – il tema degli squilibri interni alla nostra popolazione è sicuramente la strada più breve verso l’indebolimento economico e geopolitico di un Paese.

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