Quale il bilancio oggi, a quasi 100 giorni del governo guidato da Mario Draghi? E soprattutto che significato, e quali conseguenze politiche può avere, l’astensione della Lega sull’ultimo decreto relativo alle disposizioni per fronteggiare un’epidemia che l’Europa non riesce a fermare? E perché si è arrivati a tanto? Le risposte nella bussola di Corrado Ocone
Son passati quasi tre mesi, e ci avviciniamo ai fatidici “cento giorni”, da quella domenica 2 febbraio che vide il Presidente della Repubblica convocare al Quirinale Mario Draghi e fare un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento, senza porre veti, affinché conferissero la fiducia a “un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica”. Ne venne fuori dopo qualche settimana, un governo quasi di “unità nazionale” (all’appello mancò Giorgia Meloni che di veti invece ne mise), ma anche, si può dire, ibrido, cioè per metà “tecnico” e per metà politico. Davvero un ircocervo, una “strana bestia” che, sotto l’egida di una figura così carismatica, doveva mettere in salvo il Paese e farlo ripartire (aiutandolo anche a superare certi suoi problemi strutturali e atavici).
Quale il bilancio oggi? Soprattutto che significato, e quali conseguenze politiche può avere, l’astensione della Lega sull’ultimo decreto relativo alle disposizioni per fronteggiare un’epidemia che l’Europa, soprattutto per una serie di errori di gestione, non riesce a fermare? E perché si è arrivati a tanto? La risposta più semplice, ma anche la più banale, è quella che danno la più parte degli opinionisti e dei giornali italiani (i quali non da oggi sono politicamente schierati a sinistra): la “colpa” è di Matteo Salvini che con un piede sta dentro al governo Draghi ma con l’altro guarda alla Meloni che, rimasta all’opposizione, potrebbe sfruttare questa rendita di posizione per strappargli la leadership del centrodestra.
Il problema, a mio avviso, è che, prima di dare questa risposta semplicistica, sarebbe necessario osservare il decreto ponendosi in un’ottica, quella “tecnica”, che una figura come Draghi esige. Ponendosi in questa prospettiva, e mettendo da parte le nostre convinzioni, credo che nessuno possa negare che il decreto è contraddittorio, o meglio non si capisce quale è la “filosofia” che lo ispira. Draghi è “aperturista” o no? Si pone in continuità con il governo Conte sulla gestione ipercauta dell’epidemia, come potrebbe attestare la permanenza al ministero della Salute di Roberto Speranza, oppure no, avendo sicuramente maggiore consapevolezza dell’importanza di non compromettere ulteriormente il tessuto economico (e quindi anche la coesione sociale) del Paese? Si dirà: la sua “filosofia” Draghi l’ha esplicitata parlando di “rischio ragionato”. Ma allora qual è la ratio del rischio che sicuramente si va a correre (in verità sono troppo filosofo, questa volta senza virgolette, per non sapere anche che tutta la vita è un rischio)?
Più in generale, questa ratio è rinvenibile nel decreto, indipendentemente da se sia filo-Speranza o filo-Salvini, diciamo così per intenderci. Come si armonizza, giusto per fare l’esempio più eclatante, l’apertura serale dei ristoranti col fatto che alle 22 inizia il coprifuoco (il che significa che, per ritornare a casa, bisogna andar via dal ristorante alle 21,30, che è poi proprio l’orario, soprattutto d’estate, si va a cena fuori)? E come si concilia la riapertura delle scuole (vero veicolo di contagio) col fatto che fa un mese devono chiudere e che nel frattempo i mezzi di trasporto adeguati non sono stati apprestati? E perché si può andare a cinema ma non al ristorante? Si potrebbe continuare.
Il senso di tutta questa “schizofrenia” è che è evidente il fatto che Draghi abbia dovuto mediare fra opposte richieste dei partiti politici presenti nel Consiglio dei ministri e che alla fine ad uscirne sconfitto non è stato né Speranza e né Salvini (continuiamo ad usare questi leader come idealtipi) ma proprio il disegno complessivo. Oltre ovviamente, agli italiani, prostrati da un anno di sacrifici inutili. Fra l’altro, non si può rendere oggetto di mediazione politica provvedimenti che vanno ad intaccare nientemeno che le libertà personali (oltre che la vita delle categorie interessate alle chiusure, ristoratori in primis). L’impressione generale è che si stia andando a casaccio, cosa che non si può dire molto probabilmente dei progetti del Ricovery Fund, che Draghi e i suoi tecnici maneggiano con maestria. E, a ben vedere, nemmeno della politica estera, e della collocazione e azione internazionale dell’Italia, di “unità nazionale” che è forse, e non è poco, la vera sorpresa in positivo di questo governo.
Il bilancio, come sempre accade, è di luci ed ombre. Ma l’impressione è che, con un ulteriore sforzo, queste ultime potrebbero diminuire ulteriormente.