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L’Africa come game changer nella transizione energetica. Luci e ombre

Di Lorenzo Proietti

L’Africa potrebbe legittimarsi come il pivot delle future sfide della transizione energetica grazie allo sviluppo e all’implementazione delle nuove tecnologie ma anche grazie all’esponenziale aumento demografico. Proprio per questo è imprescindibile l’autosufficienza energetica, obiettivo ambizioso al centro dell’Agenda 2063, il progetto per trasformare l’Africa in una grande potenza del futuro

(Analisi realizzata per l’esame di Giustizia ambientale e Lotta al cambiamento climatico di Stefano Laporta e Gianfranco Nucera del corso in Relazioni Internazionali e Sicurezza Globale presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Roma “Sapienza”)

Quando si disserta di Africa, spesso si è soliti farlo in nome di tutte quelle “maledizioni” che colpiscono un continente così ricco di risorse e di materie prime: in effetti, esauritasi la spinta propulsiva degli anni ’60 e ’70, crollato il Muro di Berlino, l’Africa ha conosciuto una relativa “solitudine geopolitica”, venute meno le logiche della “Guerra Fredda” che l’avevano resa uno dei laboratori cardine del confronto tra Est ed Ovest. Schiacciato da un enorme debito estero, in un’era di stagnazione economica, di tagli alla spesa pubblica e agli investimenti, mentre la pandemia di Aids dilagava (con un picco di tre milioni di morti nel 2005), dagli anni ’70 il continente africano aveva pure dovuto fare i conti con l’imperante diminuzione delle precipitazioni, fino all’estrema siccità che ha messo in ginocchio il Corno d’Africa e la regione del Sahel, non tenendo conto dei problemi connessi alla crescita demografica.
Secondo le più recenti stime, la popolazione totale, di questo passo, è prossima a toccare le 2 miliardi e 500.000 unità nel 2050, per raddoppiare nel 2100; una popolazione giovane, un continente con un’età media di diciannove anni che vedrà espandersi vertiginosamente i nuovi conglomerati urbani, dando adito ad un’urbanizzazione incontrollata che potrebbe congestionare quegli spazi troppo spesso privi dei servizi più elementari, senza dimenticare l’emersione di un’enorme mano d’opera, non qualificata e senza grandi prospettive, (10, 15 milioni di nuovi lavoratori che ogni anno si affacciano sul mercato del lavoro).

Al 2040, in Africa viene infatti prevista la presenza di una quantità di forza lavoro ampiamente superiore alla Cina, persistendo perciò l’esigenza di assicurare al continente una crescita economica che consenta la creazione di almeno 12-15 milioni di posti di lavoro su base annuale, per la quale occorrerebbe una crescita del Pil medio continentale, ogni anno, stimato tra il 6 e il 7%: una realtà ambiziosa, senza precedenti ma che nel contempo richiede di non dimenticare la necessaria ripartizione e redistribuzione delle ricchezze eventualmente prodotte, per evitare di acuire le ben note diseguaglianze sociali e territoriali.

Nonostante permangano queste gravissime contraddizioni di fondo, d’altra parte, sono ancora troppo pochi coloro che guardano all’Africa e alle sue potenzialità, come verso uno dei principali attori strategici del futuro, se non il principale, nell’affrontare le nuove sfide geopolitiche, geo energetiche post 2015, nonché quelle demografiche, frutto dei rinnovati paradigmi volti allo sviluppo sostenibile e alla transizione, che dai combustibili fossili ci porterà verso le rinnovabili e che tanto incideranno su cooperazione e sicurezza internazionale.

Allargatosi lo spettro delle relazioni globali, oltre alle radicate convergenze con i paesi europei, in Africa si sono affacciati tanti nuovi interlocutori: dal Brasile al Giappone, passando per il Qatar, la Turchia, l’Arabia Saudita, la Russia e gli Emirati Arabi Uniti; su tutti però, nell’ultimo quindicennio è stata soprattutto la Cina che ha saputo di più e meglio rafforzare la propria presenza in Africa, rinverdendo le antiche cooperazioni politico-economiche, che hanno origini cinquantennali, e facendone un punto nevralgico nella proiezione di natura globale su cui Pechino poggia per esprimere al massimo le potenzialità del proprio capitalismo di stato.

Per la Repubblica Popolare Cinese (che dopo aver partecipato nel Sud Sudan alla missione Onu Unmiss, inviandovi 700 soldati, ha successivamente aperto a Gibuti, nel 2017, la prima base militare all’estero, proprio all’imbocco dello stretto di Beb el-Mandeb), l’Africa non rappresenta soltanto un mercato in affermazione, dove allocare potenzialmente una parte della sovrapproduzione ma è soprattutto, grazie alla ricchezza di materie prime da esportare, il fulcro nella riorganizzazione degli investimenti in infrastrutture.

Le infrastrutture africane, oggetto di faraonici investimenti, sono infatti in grado di garantire una maggiore stabilità, permettendo al gigante asiatico di controllare quelle catene di accumulazione (o “supply chains”), che fungono da volano delle nuove economie di scala, generando enormi profitti.

Di fronte a questo rinnovato protagonismo, alla ritrovata visibilità nella comunità internazionale ( si vedano l’Agenda 2063, l’Agenda 2030, nonché i nuovi impegni assunti nel quadro dell’Accordo di Parigi), molti analisti non hanno esitato addirittura ad esprimersi in termini di “scramble for Africa”, proprio a voler rimarcare le ritrovate potenzialità del continente e la capacità dei suoi popoli di riappropriarsi della propria soggettività storica, con l’intento dichiarato di voler vivere “da sé e per sé”.

In un mondo inesorabilmente caratterizzato dalle interdipendenze e dalle interconnessioni, tanto di natura economica, quanto di natura culturale, le grandi opportunità che ogni giorno si creano, dovranno portare al confronto con gli endemici problemi che attanagliano l’Africa: solo così si potrà realmente tendere verso la costruzione di una “via africana allo sviluppo sostenibile”, che secondo molti potrebbe addirittura divenire una sorta di “grande palestra” globale.

PREMESSE E OPPORTUNITÀ

Il 2015 è stato un anno spartiacque per la comunità internazionale, vista l’adozione, nello spazio di pochi mesi, dell’Agenda 2030 e dell’Accordo di Parigi , mentre già in gennaio l’Unione Africana aveva adottato l’Agenda 2063, documenti questi che andranno ad incidere inesorabilmente sulle venture agende dei governi; nella fattispecie particolare, con l’Agenda 2063, integrata nella legislazione di oltre 30 paesi, l’Unione Africana aspira ad una «prosperous Africa based on inclusive growth and sustainable development» che sia un continente integrato, politicamente unito e “based on the ideals of Pan-Africanism and the vision of Africa’s Renaissance”.
Un “framework strategico” a lungo termine di sviluppo inclusivo e sostenibile, che inquadri la transizione energetica del continente e che ambisce a rendere l’Africa autosufficiente dal punto di vista energetico, puntando specificatamente sulle energie pulite e su un reale efficientamento e miglioramento organico delle infrastrutture per la distribuzione, necessario per sostenere la crescita della domanda energetica interna, nello specifico dell’area subsahariana, per i prossimi venti anni, sospinta soprattutto dalla nascita di nuovi conglomerati famigliari a medio reddito.

La sfida è affascinante, oltre ad essere pienamente in linea con il settimo SDG dell’Agenda 2030 e le premesse per far ritornare questo teatro al centro del mondo (come forse era stato soltanto tra gli anni ’50 e ’70 con le grandi lotte e la decolonizzazione) ci sono tutte, in rampa di lancio una nuova ondata di dinamismo tra i responsabili politici ed economici, vista la tendenza del calo dei costi delle principali tecnologie e la ricchezza del sottosuolo che aprono nuove strade per l’innovazione e la crescita: nell’intervallo 2010-2019, i costi per la produzione di elettricità da fonti rinnovabili sono diminuiti dell’81% in materia di fotovoltaico e del 46% per l’eolico onshore.

Questa crescita dunque, se ben ponderata e pianificata, potrà rendere l’intera regione un hub energetico mondiale nel campo delle rinnovabili, superando perciò una mera logica “sviluppista”, così d’agire in un’ottica intragenerazionale e intergenerazionale, tanto in nome degli interessi delle generazioni presenti, quanto in nome di quelle future, realizzando così a pieno titolo un principio cardine dello stesso sviluppo sostenibile: fatta eccezione per l’Eritrea e per la Libia, che hanno firmato l’Accordo di Parigi ma non l’hanno ratificato, tutti gli altri paesi africani si stanno ritagliando una loro dimensione, lungo la nuova frontiera del contrasto alle emissioni dei gas serra e hanno presentato dei piani di contribuzione volontaria per raggiungere l’obiettivo prefissato a Parigi.

UN DIFFICILE PRESENTE

Non mancheranno però tangibili difficoltà, e questa sfida non sarà priva di contraccolpi, anche perché, indicatori macroeconomici alla mano, la situazione di partenza è davvero complessa e dunque, oltre a coltivare i nuovi e legittimi interessi, è indubbio che debbano in primis essere risolti alcuni problemi basilari, connessi con la realtà di tutti i giorni: se infatti da una parte il Pil reale della regione è aumentato in media del 5,1% tra il 2002 e il 2011 dall’altra, ancora il 48,5 % degli africani sub-sahariani vive in condizioni di estrema povertà, ossia con meno di US$ 1,25 al giorno (Banca Mondiale; 2014), la disoccupazione media giovanile resta oltre il 12% (Oil; 2013) e per di più, il 76% delle famiglie non è collegato alla rete elettrica , con il 70% delle stesse che non ha accesso ad efficienti servizi igienici (Unicef; 2013).

In tutta l’Africa restano ancora (al 2018) in oltre 600 milioni a non aver accesso all’energia elettrica e in 900 milioni a non disporre di fonti pulite di energia per cucinare e nonostante alcuni considerevoli miglioramenti, si è stimato che ancora al 2030 , le due voci saranno di 530 milioni e ancora quasi di un miliardo; l’80% delle aziende della regione sub-sahariana ha subito nel 2018 frequenti interruzioni di elettricità che hanno portato ad ingenti perdite economiche.

“IL FATTORE AFRICA”

Eppure, nonostante tutto, tra le variabili principali che andranno ad incidere sugli scenari della transizione energetica, v’è proprio il “Fattore Africa”, alla ricerca di nuovi spazi e di opportunità, in un mondo che sta affrontando delle epocali ed impegnative trasformazioni economiche ed ambientali.

Il continente africano è caratterizzato da una rapida crescita demografica ed economica che inciderà sulla domanda interna di beni e servizi, infrastrutture ed energia, senza la quale nulla di tutto questo sarebbe possibile: pur vivendovi oltre il 17% della popolazione mondiale, il continente consuma soltanto il 4% dell’energia globale, mentre il 70% della domanda energetica totale dell’intero continente (700 terawatt/ora) è egemonizzato dalle sole economie del Nord e del Sudafrica.

Grazie alle ricchezze naturali, alla rinnovata cooperazione tecnologica, l’Africa potrebbe dirigersi direttamente verso un nuovo modello di sviluppo alternativo, molto meno impattante in termine di emissioni da combustibili fossili e che accantoni progressivamente le biomasse, costituenti attualmente la metà dei consumi finali di energia.

SCENARI FUTURI 

Nel 2019 l’Agenzia internazionale dell’energia, nel suo Africa Energy Outlook , ha elaborato due differenti scenari, sulla base dei flussi degli investimenti e dell’accessibilità economica delle moderne fonti energetiche:
– Stated Policies Scenario;
– Africa Case.

Nel primo dei due, l’Aie tiene conto dell’attuale piano politico ed economico, in rapporto alle misure di implementazione; nel secondo, si considera la rapida espansione economico-industriale, accompagnata dall’implementazione dell’Agenda 2030, alla luce dei dettami dell’Agenda 2063.

Per entrambi, comunque, si muove dall’assunto imprescindibile secondo il quale le chiavi di volta dell’Africa saranno le fonti energetiche a basso impatto, dando per assodata una importante divergenza dal petrolio: di conseguenza, con le giuste politiche di supporto, l’Africa potrebbe diventare il primo continente a far registrare una crescita economica ed industriale basata essenzialmente su energie pulite, le quali ovviamente incideranno su molti aspetti dello sviluppo, dal cambiamento climatico all’accesso all’acqua potabile, dall’istruzione alla creazione di nuovi posti di lavoro e di forme alternative di consumo, nonché ovviamente sull’emancipazione femminile.

Per avere un’idea dei volumi operativi, qualora i dettami delle due agende venissero massimamente implementati e si tendesse verso il pieno accesso alla moderna energia e agli investimenti “verdi”, gli sforzi dovrebbero sostenere e portare a triplicare il numero medio di utenze elettriche annuali (passando dalle attuali 20 milioni a 60 milioni; per ottenere una fornitura di energia elettrica affidabile per tutti servirebbe un aumento degli investimenti di quasi quattro volte, fino a circa 120 miliardi di dollari annui verso il fatidico 2040).

Tra le opzioni di intervento diretto sui sorgitori, nei confronti di coloro che attualmente non hanno accesso all’elettricità, per il 45% di loro, l’opzione meno costosa sarebbe l’espansione e il rafforzamento delle reti, delle mini-reti per il 30% e di sistemi di piena autonomia per circa il 25% di loro; si proseguirebbero dunque quelle operazioni “sul campo” che già da tempo si stanno perfezionando e che vanno dalle centrali di larga scala, fino alle reti di trasmissione e distribuzione isolate, come mini-grid e village power realizzati con autonomi sistemi di pannelli solari.

Questo articolato piano d’azione concreto che origina dalle policies statali, troverebbe poi pieno vigore e sarebbe lo sbocco perfetto per le attività di molteplici soggetti: non soltanto gli enti pubblici e privati di settore ma anche le istituzioni finanziarie, le agenzie e le organizzazioni internazionale, con degli impatti notevoli sul sistema di governance ambientale globale.

ORIZZONTE 2040

L’Agenzia internazionale dell’energia ha inoltre stimato che da qui al 2040, metà della crescita demografica mondiale avverrà in Africa e che lo stesso continente entro il 2023 sarà la regione più popolosa del mondo, superando sia l’India che la Cina; la crescita urbana (entro il 2040, più di mezzo miliardo di persone andranno ad abitare in città) e la necessità di ricercare delle fonti di migliore qualità per cucinare, avranno un impatto diretto anche sugli attuali mercati globali del petrolio e del gas, con un incremento previsto della domanda globale di petrolio di 3,1 milioni di barili al giorno (entro il 2040), superiore a quello della Cina, secondo solo all’India, visto che le dimensioni del parco auto sono più che raddoppiate (pur mantenendo la maggior parte delle auto una bassa efficienza energetica), mentre i gas di petrolio liquefatti (Gpl) vengono sempre più utilizzati per cucinare “in maniera pulita”.

Il crescente peso dell’Africa si fa sentire anche nei mercati del gas naturale, nei quali diventerebbe la terza fonte di crescita della domanda globale di gas nei prossimi due decenni, periodo nel quale il consumo di Gpl passerebbe dal 5% al 25%, grazie ai nuovi giacimenti scoperti , che renderanno il continente produttrice del 40% globale della risorsa, sebbene il gas naturale sia considerato un “combustibile fossile di transizione” e perciò, almeno nel lungo periodo, alcuni tra i più ambiziosi scenari europei, cercheranno di limitarne le importazioni.

In Nord Africa, il gas soddisfa già la metà del fabbisogno energetico e i finanziamenti delle nuove realtà infrastrutturali, non potranno lasciare indifferente l’Italia, per la propria sicurezza energetica; Italia che, secondo i dati Eurostat, al 2018 notificava la propria dipendenza energetica al +76, 34% (a fronte, nel medesimo anno, di una media dell’Ue a 28 Stati del + 55,68%).

Il fatto che, sempre rimanendo in Italia, nel 2016 il gas naturale abbia superato di poco il petrolio, quale principale fonte impiegata per la copertura della domanda energetica nazionale (34,3% di gas, contro il 34,2% del petrolio) , rende ancora più sensibili alle trasformazioni geopolitiche che interesseranno trasversalmente il continente africano, tanto il gasdotto Trans Tunisian Pipeline Company (Ttpc) che si sviluppa per 370 km all’interno del territorio tunisino, dalle frontiere con l’Algeria (il secondo fornitore di gas per l’Italia) fino alle coste del mediterraneo, giungendo a Mazara del Vallo, dopo essersi congiunto con il Trans Mediterraneum Pipeline Company quanto, il gasdotto Greenstream, che collega con un percorso sottomarino la Libia (territorio profondamente instabile ma dalla quale, nel 2016, Roma ha importato il 7,4% di gas naturale) alla città sicula di Gela.

Bastano questi dati asciutti, posti in relazione alle premesse, l’abbondanza di risorse energetiche e i costanti miglioramenti tecnologici, per indicare come il continente africano possegga tra le proprie mani un’immensa opportunità: introdurre ed implementare delle strategie energetiche a minor tenore di carbonio, anche perché, paradossalmente proprio per i problemi attuali, l’Africa continua a rappresentare appena il 2% delle emissioni cumulative globali di Co2, con punte massime del 3% sempre entro il fatidico 2040, compensando l’elevata crescita economica con le riduzioni di metano e diossido di azoto, connesse all’utilizzo inefficiente delle biomasse per cucinare.

Le previsioni a medio-lungo termine improntate all’efficienza energetica, porteranno in media il Pil delle economie sub-sahariane a crescere fino ad oltre cinque volte quello attuale, a fronte di una domanda energetica che sarà solo il doppio dell’odierna: il tutto grazie alla rinnovata centralità del gas e delle energie pulite.

Se quindi attualmente la domanda di energia elettrica in Africa equivale al 4% del consumo globale, della quale il 70% della domanda energetica del continente, che è oggi di 700 terawatt/ora (TWh) è utilizzato dalle sole economie del nord e del Sudafrica, ecco che secondo lo scenario Stated Policies, la domanda andrebbe a raddoppiare, fino ad oltre 1.600 TWh nel 2040, mentre si raggiungerebbero i 2.300 TWh nell’Africa Case, con domanda sostenuta dalle nuove classi medie in ascesa.

Le rinnovabili svolgono e avranno un ruolo sempre più importante nel soddisfare questa domanda, visto che al momento il continente ha le risorse solari più ricche del mondo ma ha installato solamente 5 gigawatt di sistemi fotovoltaici, meno dell’1% del totale globale, fenomeno però che grazie all’innovazione tecnologica farebbe crescere questa diffusione di oltre due cifre: la diffusione del solare fotovoltaico raggiunge in media quasi 15 GW all’anno, arrivando a 320 GW nel 2040, superando l’energia idroelettrica e il gas naturale per divenire così la più grande fonte d’energia in Africa in termini di capacità istallata, con l’eolico che invece si è affermato in Etiopia, Kenya, Senegal e Sudafrica, mentre il Kenya è all’avanguardia nell’implementazione della geotermia; in più, i grandi attori internazionali si sono mobilitati per esplorare le potenzialità dell’idrogeno verde , da utilizzare diffusamente nel futuro mix energetico e che potrebbe perciò divenire una nuova priorità d’investimento, potendosi produrre e stoccare direttamente in loco, per poi essere in seguito trasportato dal Nord Africa all’Europa, mediante nuovi elettrodotti o riconvertendo i metanodotti già esistenti.

Tale idrogeno potrebbe per di più alimentare tutti quei settori non elettrificabili, fornendo una possibilità di stoccaggio per compensare la variabilità delle fonti rinnovabili.

ESEMPI D’ATTUALITÀ

Al di là delle stime future e delle previsioni ottimistiche, il continente africano può attualmente già contare su alcuni esempi virtuosi: su tutti, probabilmente, c’è il Kenya.

Lo stato dell’Africa orientale, bagnato ad est dall’Oceano Indiano, ha promosso un aumento senza precedenti dell’elettrificazione nelle zone periurbane durante gli ultimi due lustri, sviluppando contestualmente una strategia (attualmente in fase di implementazione) per la produzione di energia geotermica che mira a portare il geotermico al 50% del pacchetto dell’energia sostenibile, un pacchetto che ha portato progressi tangibili nella scala della produzione nazionale.

Altre realtà degne di nota, sono la Repubblica Democratica del Congo e la Nigeria: l’ex Zaire ha fatto tesoro delle ricchissime potenzialità del proprio bacino imbrifero , utilizzandole per produrre la quasi totalità del fabbisogno di energia da impianti idroelettrici e sta vagliando i progetti di sette ulteriori dighe sull’Inga che promettono addirittura di farne un esportatore per i paesi limitrofi.

La Nigeria, da parte sua, vuole intensificare la produzione di gas naturale, puntando al contempo sulle rinnovabili; ad oggi, l’80% dei generatori di energia è alimentato a gas e il restante è quasi interamente supportato da petrolio.
Da qua al 2040, il Governo federale sta lavorando per incentivare il fotovoltaico, così da soppiantare quel 20% in capo al fossile; purtroppo per lo Stato nigeriano, tra i principali problemi continuano a permanere, in campo tecnico, una bassa densità di distribuzione e frequenti cali di tensione, i quali rischiano di frenare il massiccio sviluppo delle industrie, soprattutto nella ragione di Lagos, una delle aree con la più imponente crescita demografica del Globo.
V’è poi un caso particolarissimo, dove le ricchezze naturali hanno portato ad un ribaltamento dei normali rapporti di forza e sono servite da trampolino di lancio per l’economia locale, in ottemperanza al principio di autodeterminazione dei popoli e in virtù dell’autogestione dei territori indigeni : il caso, già oggetto della crescente attenzione della Banca Mondiale, del Forum economico globale e di alcune agenzie dell’ONU, caratterizza la Repubblica del Sudafrica ed è radicato a Phokeng, provincia del Nord-Ovest, in prossimità delle miniere di Rasimone; il sottosuolo raccoglie infatti le più grandi riserve mondiali di platino, in corrispondenza delle quali vive la tribù dei Bafakeng.

Il regno dei Bafokeng, pur essendo parte integrante della “nazione arcobaleno” ha organizzato un sistema di governo speciale, con una propria amministrazione autonoma, un’organizzazione in clan, un budget autonomo e un diritto indigeno, riscattandosi da un passato fatto di oppressione e sfruttamento, visto che era stato loro impedito dalle norme segregazioniste di possedere le proprie terre (come del resto a tutte le popolazioni indigene).

Non appena l’apartheid terminava, i Bafokeng si lanciavano in una lunga battaglia legale contro il colosso estrattivo dell’Impala Platinum, che fino a quel momento aveva tenuto per sé tutti gli utili delle attività minerarie e dopo aver vinto questo importante braccio di ferro (per la prima volta una tribù sudafricana è riuscita in un’impresa simile), al momento i Bafokeng raccolgono il 22% delle royalties e sono arrivati a possedere il 13% di partecipazioni nel capitale della miniera, ponendo nel contempo le basi per proiettarsi al di fuori dell’economia mineraria.

NON È TUTTO “BLU” CIÒ CHE LUCCICA

Se quindi è innegabile che l’Africa possegga quei volani che nei prossimi due decenni le consentirebbero di effettuare una grande svolta storica e politica, purtroppo queste nuove opportunità portano con sé alcuni rovesci della medaglia, dai risvolti non meno pericolosi di quelli già conosciuti in passato: le note dolenti non si esauriscono alle deficienze infrastrutturali e alle sperequazioni socio economiche che purtroppo inghiottono i popoli africani da lustri e che sono solo in parte un retaggio del colonialismo ma per esempio, i nuovi fenomeni di inurbamento porteranno con sé un inevitabili stress sull’ambiente, che se non ben gestito si tradurrà in nuove enormi baraccopoli cresciute ai margini delle grandi metropoli, fucine di problemi igienico sanitari e fonte di deturpamento ambientale.
In realtà, non vi è solo questo: turbine eoliche, missili Cruise, condizionatori, pannelli solari e fotovoltaici, marmitte, cellulari, batterie; tutti i prodotti che in generale contengano componenti o motori elettrici contengono al loro interno quella classe di materiali nota come “metalli rari” , in una quantità compresa tra l’1% e il 5% del suo peso, fino al 25% dei magneti di una pala eolica.

Senza di loro, l’espansione delle fonti rinnovabili di ultima generazione non sarebbe affatto possibile e non si potrebbe generare l’elettricità reclamata in sostituzione di quella proveniente dal fossile.
L’estrazione di questi metalli richiede tanta fatica ed è pericolosa per i minatori, producendo degli impatti ambientali nocivi: ecco dunque perché la maggior parte dei paesi occidentali ha preferito rifornirsi da quei paesi dove le condizioni lavorative sono “maggiormente convenienti”, con minori standard in materia ambientale e di sicurezza sul lavoro; il loro recupero poi, è reso particolarmente complesso dal momento che vengono spesso utilizzati in leghe, onerose da scomporre e dunque non v’è ancora una convenienza economico-industriale nel scindere i metalli rari dagli altri, per dedicare loro uno specifico processo di “riciclo”.

Sta di fatto, che ormai la Cina (che possiede il 37% delle riserve mondiali, equivalenti a 44 milioni di tonnellate) ha ottenuto una supremazia all’interno di questo filone economico e che Pechino è ormai il primo produttore di 28 risorse minerarie indispensabili all’economia contemporanea (anche in chiave delle fonti alternative), non di rado mantenendo una percentuale superiore al 50% della produzione mondiale.

Tutto questo rientra perfettamente nella dottrina del Presidente Xi Jinping, riassunta in sette cerchi concentrici, tra loro interdipendenti: al di là di una rigida schematizzazione, oltre agli imprescindibili dettami di natura politico-ideologica (la centralità del Partito, l’unità del paese, la revisione dell’ordine mondiale, attraverso un protagonismo sempre più marcato nei nuovi assetti multipolari) e strategico-militare (proiezione marittima, controllo sugli stati confinanti), quanto in supporto all’espansione economica sulla periferia continentale, si investa capillarmente nella crescita economica sostenibile sul piano ambientale.

Al capitolo metalli rari, anche l’Africa ha una importante voce in capitolo, grazie al Sudafrica, fondamentale produttore di platino e di rodio ma soprattutto, grazie alla Repubblica Democratica del Congo, che è la principale produttrice di cobalto, il “metallo blu” (oltre 100.000 tonnellate per anno; la Cina però, al 2019, assicurava oltre l’80% della raffinazione della produzione globale) con due terzi delle proprie riserve nel territorio congolese.
Il cobalto è la componente principale delle batterie di nuova generazione a ioni di litio ed è attualmente utilizzato per la radioterapia e per le batterie dei telefoni cellulari e dei veicoli elettrici, i quali potrebbero passare entro il 2030 ad essere dal 22% al 30% del parco macchine globale ; purtroppo però, non essendovi delle valide alternative, né un efficiente e sicuro sistema di smaltimento, l’unica opzione per sostenere la rapida espansione di questo settore automobilistico, sarebbe quella di portare la produzione fino a 220.000 tonnellate annue (considerando che nel 2019 sono state 136.000 le tonnellate prodotte), causando delle fluttuazioni dei prezzi al ribasso con effetti devastanti per quei paesi che, come la Repubblica Democratica del Congo, vivono soprattutto delle esportazioni del minerale.

Questa contemporanea e sfrenata “corsa” all’oro sta assumendo troppo stesso le fosche tinte neocoloniali, fatte di un’incessante gara delle società minerarie per aggiudicarsi nuove licenze di esplorazione e sfruttamento in Congo, come pure in Niger, Costa d’Avorio, Tanzania, Malawi, Namibia e Mozambico, con un fermento crescente tanto tra i grandi operatori del settore (come Bhp Billton o Rio Tinto), quanto tra i più piccoli: nel nord del Mozambico è l’australiana Syrah Resources che controlla la più grande miniera di grafite, utilizzata nelle batterie delle vetture elettriche di nuova generazione, come la “Tesla Model 3”; in Malawi è invece la Noble Group, quotata a Singapore, ad aver investito oltre 17 milioni di dollari per l’estrazione delle terre rare.

Il colosso Glencore, al momento, è saldamente inserito tra il produttori di cobalto congolese, avendo già previsto di raddoppiarne la produzione globale: il tutto, in un paese enorme e instabile, servendosi di centinaia di migliaia di lavoratori locali, comprese le donne e i bambini, costretti a lavorare in arzigogolati cunicoli a centinaia di metri nel sottosuolo e spesso solo con le mani nude, le mazze e i picconi; morti e incidenti gravi sono all’ordine del giorno, mancando per altro a tutt’oggi un trattato internazionale vincolante delle Nazioni Unite su “Imprese e diritti umani” che funga da quadro legale per le attività delle multinazionali.

Di fronte alle dinamiche più oscure della transizione energetica, sembra essere tornata in auge l’infelice frase proclamata dal Re Leopoldo II del Belgio al Congresso di Berlino del 1876, che ebbe a dire: «L’Africa è una magnifica torta da spartire».

CONCLUSIONI

Ragionare di Africa non significa rimanere soltanto confinati all’Africa: c’è infatti un ultimo aspetto, che merita quanto meno di essere messo in risalto.

Non bisogna mai dimenticare che questa partita si sta giocando su campi molteplici, che ancor più che con l’Europa, legano a filo doppio l’Africa con l’Asia (anche per numerose similitudini “materiali”), dal momento che è innegabile il ruolo impersonato dal continente asiatico nella globalizzazione, tanto negli scenari presenti, quanto in quelli del futuro.

Con un contributo superiore al 60% della crescita del Pil mondiale (anno 2017), una popolazione che è oltre il 60% di quella globale l’Asia, paradossalmente, nello stesso momento costringe ancora oltre 400 milioni dei suoi abitanti a rimanere senza un accesso all’elettricità: è evidente come il fabbisogno energetico, anche qui, non potrà che aumentare, sebbene la continua “fame” di energia debba camminare di pari passo con il necessario equilibrio da ricercare nei confronti della decarbonizzazione.

Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, per non superare la soglia dei 2 C° entro l’inizio della seconda metà del secolo (secondo quanto stabilito da Parigi), il 90% della crescita della domanda di energia dell’intera Asia dovrebbe venir soddisfatta da fonti rinnovabili o a bassa emissione di carbonio, vedendo la regione sostituita (entro il canonico 2040) l’intera domanda esistente di combustibili fossili ad alta emissione, con l’elettrificazione dei sistemi energetici e di trasporto.

Per quanto tra il 2013 e il 2018 siano raddoppiate le capacità di energia rinnovabile, il consumo di petrolio e carbone ha comunque soddisfatto una buona parte della domanda supplementare con una tendenza che, se continuasse su tali ritmi, vedrebbe comunque quasi il 50% del consumo primario di energia, tra venti anni, dipendere da carbone e petrolio: se così fosse, il carbon budget asiatico (costituito dalla quantità totale di gas serra emessi, nei limiti dei 2 C°) verrebbe esaurito molto prima del previsto.

Anche per questo, non è impossibile immaginare un nuovo hub africano delle rinnovabili, che una volta sbocciato, potrebbe dar vita a nuove forme di cooperazione di più ampia prospettiva.

Mentre la tradizionale geopolitica delle energie si basa sulla scarsità quantitativa e sulla concentrazione di un certo prodotto, come il petrolio, di cui è possibile “controllare” l’offerta, facendone oscillare il prezzo, il vento e il sole sono invece disponibili pressoché ovunque, scomparendo in linea teorica questo condizionamento dal lato dell’offerta e sorgendo perciò la possibilità di sfruttare questa “diffusione” per garantire autonomia e indipendenza energetica, svincolando nello stesso tempo gli attori dai classici dilemmi legati al trasporto (come per esempio il ruolo dei colli di bottiglia) e alle importazioni.

La minor dipendenza dal trasporto e la capacità di utilizzo che, almeno nel breve periodo, necessiterà della vicinanza delle fonti di produzione, viste le difficoltà nello stoccaggio, porterà alla tendenziale regionalizzazione della geopolitica delle energie.

È in tal senso che, in raccordo con i principi dell’Agenda 2063, saranno fondamentali la capacità dei nuovi leaders del continente africano nel saper affrontare i nuovi rapporti di forza che potrebbero sorgere a livello internazionale, preoccupandosi di aumentare al massimo i benefici per le popolazioni autoctone, senza invece procedere ad una svendita delle ricchezze nazionali finalizzata all’arricchimento personale, come troppo spesso accaduto nella storia dell’Africa.

La vera sfida per il continente africano partirà dalla capacità di assicurare energia elettrica pulita a tutta la popolazione, allontanandosi inesorabilmente dal fossile e per far questo ci sarà bisogno di scelte radicali e di un rinnovato protagonismo da parte dei decisori politici, che dovranno agire in maniera capillare, territorio per territorio: un’integrazione transnazionale, coordinata all’efficientamento e al miglioramento nella gestione delle reti, porterebbe energia sicura e soprattutto a basso costo per tutte la popolazioni, garantendo l’autosufficienza, così da sostenere la crescente domanda interna e convertire così interi assetti economici.

Tutto questo potrebbe dar vita ad una vera e propria rivoluzione, socio-economica ancor prima che geopolitica, che svincolandosi sempre più da quella degli idrocarburi e nonostante il gas rimarrà centrale nell’aiutare il phase-out dal carbone, collocherà in una prospettiva diversa il collegamento fra sicurezza energetica e redistribuzione del potere a livello globale.

La possibilità infatti di tramutare economie imperniate sulle esportazioni (verso le aree occidentali) in consumi interni (anche di prossimità), che sostengano la domanda aggregata di un grande mercato comune africano e che siano il fulcro di una rinnovata e riconvertita produzione locale, potrebbe andare a trasformare molti di quelli stati che vivono esclusivamente di investimenti diretti esteri, e che non di rado si ritrovano a confrontarsi con l’insoluta questione del debito estero, per non parlare dei rentier states , in nuovi soggetti in grado di aggredire nuove fette di mercato e di essere degli interlocutori dei paesi più industrializzati, non già meri serbatoi di materie prime a basso costo; le ricadute sono facilmente prevedibili, visto che l’energia, pur rimanendo centrale nelle relazioni internazionali sarà sempre più funzionale ad uno sviluppo sostenibile e diffuso, al cospetto di una minore strumentalizzazione nella politica di potenza statuale.

Ecco perché, senza timor di retorica, il 2040 non è mai stato così vicino.

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