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Occhio, la Cina ci osserva (da molto vicino). Fino a quando?

Termoscanner a Palazzo Chigi e telecamere nelle Procure: la tecnologia cinese avanza nella Pubblica amministrazione italiana oltreché nelle nostre città. Zennaro (Lega): “Necessari un approfondimento sugli acquisti da Paesi non alleati e una revisione delle modalità di gara”

Due notizie stanno riaccendo i riflettori sul ruolo delle aziende tecnologiche cinesi in Italia.

La prima l’abbiamo appresa grazie a un’interrogazione parlamentare depositata nei giorni scorsi da alcuni senatori della Lega (primo firmatario Simone Bossi): Dahua Technology, branch office italiana del gruppo cinese Dahua – che figura nella lista nera degli Stati Uniti a causa del ruolo avuto nella sorveglianza degli uiguri nello Xinjiang ed è stata definita dalla Fcc una minaccia per la sicurezza nazionale –, è stata incaricata di installare i propri sistemi per la salvaguardia e il monitoraggio presso Palazzo Chigi.

Ecco la nota pubblicata sul sito dell’azienda il 30 settembre scorso, in pieno governo giallorosso, quando l’inquilino di Palazzo Chigi era ancora Giuseppe Conte: “Ben 19 terminali per il controllo accessi con rilevamento termografico ASI7223X-A-T1, collocati direttamente sui tornelli, effettuano in automatico uno screening preventivo della temperatura cutanea di ministri della Repubblica, funzionari, personale e visitatori in modo rapido, preciso e senza alcun contatto, rilevando chi non indossa la mascherina e subordinando l’accesso al rispetto delle soglie configurate”. Non solo: i terminali “offrono inoltre la funzione di riconoscimento facciale – con la possibilità di registrare i volti in liste VIP, l’integrazione con i sistemi di rilevamento termografico tramite telecamere termiche ibride e blackbody, e la massima flessibilità potendo essere montati a parete, su un ripiano, su una piantana da pavimento o, come in questo caso, su un tornello (sia di manifattura Dahua che di terze parti)”.

La seconda notizia l’ha rivelata Wired: in 134 Procure italiane i sistemi di videosorveglianza della controversa multinazionale cinese Hikvision (bandita dagli Stati Uniti con accuse simili a quelle che riguardano Dahua) sono stati acquistati dal ministero della Giustizia per controllare le sale intercettazioni. Ecco cosa ha rivelato la testata: “Quando, nel 2017, la riforma del codice penale varata dall’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, prescrive di dotare i centri intercettazioni telefoniche (cit) di nuovi impianti elettrici e di videosorveglianza, per comprare la tecnologia via Arenula fa ricorso a una convenzione che la centrale degli acquisti per la pubblica amministrazione, Consip, ha stipulato con Tim e Fastweb. L’appalto viene assegnato nel 2018. Valore: 6 milioni di euro, Iva esclusa. Dai documenti di gara, ottenuti da Wired attraverso una richiesta di accesso agli atti, emerge che quelle risorse sono servite a pagare l’acquisto, l’installazione e la manutenzione per due anni di 1.105 telecamere targate Hikvision e del software e degli accessori per farle funzionare”.

Formiche.net si era occupata di videosorveglianza made in China pochi giorni fa, dopo che l’intelligence britannica aveva messo nel mirino Huawei, Alibaba e Hikvision invitando il governo a imporre limitazioni per prevenire spionaggio, sorveglianza e raccolta di dati.

Come sottolineavamo in quell’occasione, il tema tocca l’Italia, con le tecnologie cinesi presenti anche in varie città. Qualche esempio? Basta visitare la sezione “Storie di successo” del sito di Hikvision, azienda presente in Italia con un ufficio a Vittorio Veneto (Treviso). Qui si trovano casi di utilizzo dei loro prodotti di videosorveglianza nel nostro Paese: la città di Avezzano (L’Aquila), la cattedrale di Santa Maria Nuova a Monreale (Palermo), la clinica privata Villa Margherita nel cuore di Roma e lo storico beach club sul litorale ostiense Marine Village. Su PadovaOggi.it si legge di telecamere Hikvision installate nella città veneta, perfino nel cimitero.

Senza dimenticare che, come raccontavamo su queste pagine nel 2019, il riconoscimento facciale dei romani a Huawei era già stato uno dei temi presenti nell’agenda di Mike Pompeo, allora segretario di Stato americano, in vista nella capitale.

Sono – almeno – tre i rischi di fare affidamento su queste tecnologie cinesi: rafforzare aziende accusate di violazioni dei diritti umani dando loro soldi e legittimità; mettere a rischio la sicurezza dei dati alla luce delle accuse di diverse intelligence occidentali; favorire l’ascesa di Pechino, decisa a dettare gli standard globali anche nell’arena tech. Rischi che potrebbero suggerire il ricorso a una review dei dispositivi acquistati e in funzione nella Pubblica amministrazione italiana.

Raggiunto telefonicamente da Formiche.net, Antonio Zennaro, deputato della Lega e membro della commissione Finanze, dichiara: “Non possiamo essere esposti a rischi tecnologici simili per l’interesse nazionale. È necessario un approfondimento, in particolare sugli acquisti da Paesi che non sono nostri alleati. E pure una revisione delle modalità di gare”. “Penso”, aggiunge, “che ci siano aziende italiane o di area Nato che producono questi dispostivi. E se così non fosse dovremmo farci un esame di coscienza, come Italia e come Unione europea, e incentivare seriamente le realtà dei settori che stanno all’interno del perimetro golden power per colmare il gap tecnologico in fretta”.

“L’utilizzo della tecnologia cinese in siti sensibili della pubblica amministrazione è un tema che ci abbiamo porre urgentemente”, conclude Zennaro. “Sul 5G il Copasir ha dimostrato uniformità di parere. Penso sia una dimostrazione del fatto che sui temi di sicurezza nazionale si possa correre tutti assieme”.



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