La storia indica la via per l’innovazione istituzionale. Per rilanciare il progetto europeo occorre ripartire dalle fondamenta della sovranazionalità, ovvero la capacità dell’Ue di finanziarsi in maniera autonoma. A settant’anni dalla firma del Trattato di Parigi che ha istituito la Ceca e in vista della Conferenza sul futuro dell’Europa, l’unione fiscale è e resta la cifra dell’unione politica. L’intervento degli esponenti del Movimento 5 Stelle Fabio Massimo Castaldo, vicepresidente del Parlamento europeo, e Francesco Berti, deputato alla Camera
Finanziare un’organizzazione è uno dei modi per controllarla. A questa regola non fanno eccezione le organizzazioni internazionali e neanche l’Unione europea. La finanza federale della Ceca è stato l’elemento di successo del progetto di integrazione europea. A settant’anni dalla nascita del primo embrione di sovranazionalità e a due mesi dall’inizio della Conferenza sul futuro dell’Europa, riteniamo che l’unione fiscale sarà il punto più rilevante per la sintesi tra le varie sensibilità nazionali e politiche.
L’importanza di rendere la Ceca indipendente dagli Stati nazionali era chiaro a Jean Monnet, padre fondatore della Ceca e già vicesegretario della Società delle Nazioni, il quale dotò le istituzioni di una prima capacità fiscale autonoma, grazie alla possibilità di imporre prelievi sulla produzione e il commercio di carbone e di acciaio. Questo fu possibile proprio tramite l’istituzione delle cosiddette risorse proprie, ovvero tasse riscosse e assegnate direttamente alle istituzioni europee, senza l’intermediazione degli Stati nazionali.
Gli stessi Stati nazionali che oggi mantengono un diritto di veto sulle decisioni di bilancio, come minacciato recentemente da Polonia e Ungheria. Il Consiglio europeo, con consenso unanime, può approvare l’emissione di debito (articolo 122, Tfue) e le risorse finanziarie dell’Unione (articolo 311, Tfue). Il Parlamento, unica istituzione eletta e rappresentativa del popolo europeo, non ha competenza nel definire le entrate del bilancio ma è chiamato soltanto a dare il consenso per le spese. Ed è proprio sul lato delle entrate del bilancio che la struttura della Ceca, se riletta tramite i numeri e le procedure di oggi, presenta un carattere fortemente innovativo.
Nei primi anni delle Comunità europee (dal 1973 al 1980) la Comunità riusciva a finanziarsi tramite i dazi doganali per il 56,2% del proprio bilancio, negli ultimi sette anni (2013-2019) tale percentuale è crollata al 13%. Questo rende il bilancio dell’Unione europea dipendente dai trasferimenti finanziari degli Stati nazionali, con un forte rischio: l’insorgere da parte di molti Paesi di rivendicazioni politiche. Infatti, in un’ottica meramente contabile, alcuni Stati potrebbero valutare esclusivamente gli esborsi netti, cioè la differenza fra quanto si versa al bilancio europeo e quanto se ne riceve. Questa visione nazionalista mette in secondo piano le priorità generali che l’Unione è chiamata ad affrontare, come appunto la ripresa economica generale dell’Unione europea post Covid-19.
Il Next Generation EU, da noi è conosciuto come Recovery Fund, ha conferito alla Commissione europea il potere di contrarre sui mercati finanziari prestiti per 750 miliardi di euro. Le spese per il rimborso del debito da pagare entro il 2058, nonché il pagamento degli interessi relativi a tali prestiti (parliamo di circa 13-15 miliardi nel settennio 2021-27), saranno poste interamente a carico del bilancio dell’Unione, con il rischio concreto che aumentino i contributi futuri a carico degli Stati membri.
Per evitare questo, il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione hanno concluso un apposito Accordo interistituzionale, che definisce una tabella di marcia per l’introduzione di nuove risorse proprie attraverso una imposizione diretta europea in settori dove l’Unione europea può esercitare la propria proiezione continentale e globale: ambiente, digitale e regolazione della finanza. Si tratta di un intervento europeo ambizioso, impensabile fino a solo pochi mesi fa. Oggi, senza fare del facile ottimismo, possiamo dire prefigurino il preludio di una politica fiscale comune, capace di aggredire quei paradisi fiscali che costano all’Unione europea oltre 59 miliardi l’anno (fonte Tax Justice Report 2020).
Inoltre, la centralizzazione monetaria scollegata da un sistema di trasferimenti fiscali è un unicum europeo non più giustificabile. L’unione monetaria senza una controparte fiscale con un bilancio autonomo espone l’Unione europea a dei rischi sistemici in grado di creare fratture difficilmente sanabili, come avvenuto nella gestione della crisi finanziaria del 2009. Non è possibile creare una “Unione sempre più stretta” quando esistono disuguaglianze tra i Paesi membri come, ad esempio, nel mercato del lavoro: la regione tedesca di Münster ha un tasso di disoccupazione giovanile del 4,6%, mentre in Sardegna è del 45%, dieci volte di più.
La scommessa che ci attende nei prossimi mesi è di progettare un’Unione europea all’altezza delle aspettative dei cittadini. L’esperienza della Ceca ci insegna che per uscire da una crisi serve una grande capacità di immaginare e innovare. A nostro avviso, come fu con la Ceca, la soluzione è attribuire un potere fiscale pieno all’Unione, da esercitare libero dai veti degli stati, quindi a maggioranza.
La Conferenza sul futuro dell’Europa, che sarà lanciata a breve, è il luogo ideale per discutere della revisione dell’architettura europea. Non possiamo più aspettare nascondendoci dietro le difficoltà. Lo stesso Jean Monnet diceva: “I problemi concreti non sono più irrisolvibili a partire dal momento in cui si affrontano nella prospettiva di una grande idea”.