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Perché la lentezza di Conte è un problema per Letta. La bussola di Ocone

Conte ha deciso di procedere con molta cautela, mediando e negoziando, soprattutto troncando e sopendo come il Padre provinciale di manzoniana memoria. Non fa scelte nette, cerca di non spezzare i fragili equilibri su cui si regge il Movimento. È evidente che con questa situazione fatta di attendismo e inazione a indebolirsi sia anche la strategia di Enrico Letta. La bussola di Corrado Ocone

Forse Machiavelli si rivolterà nella tomba nel vedere la “lentezza” con cui Giuseppe Conte procede a (ri)fondare il partito di Grillo. Per il segretario fiorentino la politica impone ai leader di agire con audacia e temerarietà, cogliendo al volo le occasioni che la fortuna offre loro e senza timore di scontentare alcuni, o anche molti. Conte, che politico non è, ha deciso invece di seguire la strada opposta e procede con molta cautela, mediando e negoziando, soprattutto troncando e sopendo come il Padre provinciale di manzoniana memoria. Non fa scelte nette, cerca di non spezzare i fragili equilibri su cui si regge il Movimento.

All’incontro organizzato dalla neocostituita associazione (o corrente?) del Pd che fa capo a Goffredo Bettini, Agorà,  il presidente del Consiglio uscente ha parlato di “umiltà”, trasudando ottimismo sull’esito finale di un processo di rifondazione che ad occhi esterni pare invece stentare a partire. L’impressione è che, trattandosi appunto di equilibri precarissimi, prima o poi il vaso si rompa comunque. È chiaro, infatti, che, man mano che ci si approssimerà alle elezioni politiche, con la riforma o no della regola del secondo mandato, essendo nel frattempo diminuiti i posti a disposizione dei partiti per le candidature, ci sarà una sorta di “liberi tutti” fra deputati e senatori. Non è detto che sia un male, e forse Conte proprio questo cerca. Ma siamo sicuri che anche quel venti per cento scarso di elettorato che i Cinque Stelle hanno oggi secondo i sondaggi reggerà al colpo? Fin quando durerà poi il credito personale che il capo politico in pectore ha ancora, sempre secondo i sondaggi?

È evidente che con questa situazione fatta di attendismo e inazione a indebolirsi sia anche la strategia di Enrico Letta, che in sostanza voleva allearsi coi Cinque Stelle non in modo strutturale (facendo nascere in prospettiva un grande e unico partito a sinistra) ma tattico. Un’alleanza in cui il Pd avrebbe avuto un peso significativo perché avrebbe messo sul tavolo, rispetto ai grillini, una identità forte, una consolidata rete di relazioni a livello europeo, un’organizzazione sul territorio. Che Letta rappresenti tutto ciò, e che abbia lavorato in questa direzione in queste settimane, è evidente. Ma è chiaro che, trovandosi un Movimento in così avanzato stato confusionale, e forse degenerativo, e con un Conte che non riesce nemmeno a dire pubblicamente che i Cinque Stelle sono “di sinistra” solamente, le prospettive non siano delle migliori. Soprattutto a livello locale, con le elezioni di autunno nei grossi comuni, a Letta serviva un’alleanza fin dal primo turno che nei fatti, almeno a Roma e a Milano, non ci sarà. Ma tant’è!

Il segretario, anche lui ottimista, si è rifugiato allora, sempre nell’incontro organizzato da Bettini, nei sentimenti vaghi dell’“empatia” e della fiducia che bisogna trasmettere al proprio elettorato. Siamo in un terreno assolutamente non politico, o prepolitico, almeno nel senso stretto del termine, ma sembra esserci comunque, da parte di Letta, la consapevolezza di quello che sembra essere oggi il vero problema della sinistra: l’incapacità di parlare alle masse popolari, come facevano i vecchi partiti della prima Repubblica, dei cui due maggiori il Pd dovrebbe essere teoricamente l’erede. Si tratta di quella che viene percepita, per dirla con il titolo di un noto saggio del sociologo Luca Ricolfi, come la “superiorità morale” della sinistra.

I problemi, in verità, sono forse due: che quelle masse non esistono più, almeno nella loro forma definita e organizzata, sostituite spesso da individui isolati e stretti nella morsa della solitudine o del narcisismo; e che comunque il Pd sembra oggi parlare soprattutto al ceto medio garantito e “riflessivo” delle grandi città (“il partito della Ztl”, come è stato efficacemente definito). L’insistenza sui diritti e sulle “diversità”, su cui Letta si è mosso (anche) per calcare la propria identità, non sembra fatta per generare una vera “empatia” verso i ceti deboli e sofferenti. Va però ammesso che a sinistra, forse non meno che a destra, e nonostante gli ottimismi di facciata, è tutto ancora in movimento in questi mesi. E che, avendo Conte rinunziato a fare il “federatore” delle due forze maggiori, anche a sinistra sembra riproporsi una diarchia competitiva del tipo di quella che gli osservatori vedono a destra fra Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

Per fortuna, tutto non si riflette troppo sulle istituzioni, e tutto sommato nemmeno sul governo. Il quale procede la sua strada sotto l’ombra, protettiva e arcigna al tempo stesso, di “super Mario”.

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