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La crisi della sedia turca e i fantasmi del 1965. Il commento di Berti (M5S)

Di Francesco Berti

La raccapricciante pantomima di Ankara testimonia la debolezza di un’Unione europea bicefala, incapace di ritagliarsi un ruolo forte nel Mediterraneo e di parlare con una voce sola in politica estera. Ma non è la prima volta… Il commento di Francesco Berti, deputato del Movimento 5 stelle e membro delle commissioni Esteri e Politiche dell’Unione europea

30 giugno 1965. Il presidente Charles De Gaulle decide di ritirare la delegazione francese dai lavori del Consiglio dei ministri dell’allora Comunità economica europea, in protesta contro la volontà di Bruxelles di attribuire maggiori poteri alla Commissione e al Parlamento. Uno dei punti più spinosi era la proposta di ridurre le materie sottoposte a diritto di veto dei singoli Stati membri. Quello fu l’inizio della cosiddetta “crisi della sedia vuota”, durata 6 mesi e terminata con un compromesso al ribasso che reintrodusse la possibilità per gli Stati di porre il veto su ogni decisione che fosse lesiva di “interessi molto importanti”. Una procedura che da sempre ostacola l’emergere di una vera politica estera europea.

Oggi è di nuovo una sedia a scatenare il panico e smascherare le debolezze intrinseche nell’Unione europea, specie in politica estera. Se volessimo addentrarci nell’interpretazione dei trattati europei in funzione del protocollo, l’articolo 13 del Trattato sull’Unione europea pone la Commissione in quarta posizione (dopo Parlamento, Consiglio europeo e Consiglio), interpretazione confermata dallo staff del presidente Charles Michel. Il portavoce della Commissione Eric Mamer però si è affrettato a dire che la Commissione gode dello stesso status del Consiglio nelle relazioni internazionali, come è stato nei precedenti meeting Ue-Turchia, ove ci fu l’accortezza di preparare tre posti di pari livello.

La scena vista ad Ankara, infatti, non può infatti essere derubricata solo e soltanto a sgarbo istituzionale, machista e maschilista, a opera di un sultano contemporaneo, preoccupato di occupare la mavi vatan (Patria blu), di accentrare il potere e di lisciare il pelo alla componente più integralista del suo Paese, quella del Mhp. Abbiamo buoni motivi per considerare quanto accaduto ad Ankara un continuum della prepotenza della Turchia verso l’Unione europea e suoi Stati. Il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul è solo l’ultimo atto di una politica interna incompatibile con l’entrata della Turchia nell’Unione europea, percorso iniziato formalmente nel 1999 ma di fatto fermo dal 2008.

Dopo l’ok per un soffio alla riforma in senso presidenzialista con il referendum del 2017, alcuni passaggi significativi hanno contribuito ad allontanare la Turchia dallo spirito europeo: l’ammiccamento alle destre religiose estreme (Mhp), la repressione della minoranza curda ai confini con l’Iraq e l’arresto di parlamentari dell’Hdp, una politica di potenza con annesso incidente navale sulle coste della Libia con i greci (nell’ambito della missione Irini) e i francesi (nell’ambito dell’operazione Sea guardian) e la sfida frontale a Emmanuel Macron sul fronte della lotta separatismo islamico. Questioni che si aggiungono a ferite aperte da decenni come l’invasione di Cipro del 1974, uno dei tanti dossier che compongono la storica rivalità con la Grecia.

Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha dunque voluto mostrare i muscoli, ma se una sedia basta per mandare in tilt la diplomazia unionista la situazione è grave. Il tema dell’incapacità dell’Unione europea di darsi un’organizzazione semplice, lineare e condivisa va affrontato senza ulteriori rinvii. Se l’Unione europea vuole apprendere qualcosa da questo evento, potrebbe provare a rispondere alla domanda attribuita all’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger “Who do I call if I want to call Europe?”. Le dinamiche della politica internazionale richiedono una sintesi di interessi particolari e dunque un unico centro decisionale in tema di politica estera.

La strada è una e la ha sapientemente tracciata il politologo Sergio Fabbrini nel suo saggio del 2017 “Sdoppiamento”. Il potere esecutivo, specie in politica estera, andrebbe concentrato o nella Commissione o nel Consiglio europeo. A patto però di slegare quest’ultimo dall’ingerenza dei Paesi maggiori, rendendo eleggibile il presidente con una votazione paneuropea. L’altro organismo avrebbe una funzione tecnica di preparazione dei meeting, più trasparente e democratica rispetto a una struttura amministrativa come il segretariato generale.

Questo passaggio richiede la volontà di rivoluzionare lo status quo da parte dei leader dei singoli Stati a favore di una nuova “sovranità condivisa” da spendere primariamente negli scenari regionali e poi globali. Un passaggio necessario per evitare fraintendimenti ben più gravi rispetto alla “crisi della sedia turca”. Transizioni di potere che storicamente si sono sempre rivelate difficili e forieri di conflitti, come appunto nella crisi della sedia vuota del 1965. La Conferenza sul futuro dell’Europa, data di inizio 9 maggio 2021, è l’occasione per sciogliere questi dilemmi costituzionali.

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