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Da Sputnik all’Ucraina, Russia senza più Europa? Scrive Marta Dassù

Anche Vladimir Putin ha la sua fase 3 e prevede un lento e inesorabile allontanamento dall’Occidente. Lo attende l’abbraccio cinese, ma ha fatto male i suoi calcoli. Dai vaccini allo spionaggio, una road map europea per tenere alta la guardia con Mosca. L’analisi di Marta Dassù, senior advisor di Aspen e componente della task force sul futuro della Nato, già viceministro degli Esteri

La Russia si allontana dall’Europa, ha scritto su Repubblica Maurizio Molinari. Le operazioni di agenti russi sul territorio europeo non sono certo una novità ma fanno parte di un contesto preoccupante: il deterioramento progressivo dei rapporti fra Mosca e l’Europa.

In mezzo alla pandemia, il controspionaggio tedesco ha mandato a monte vari tentativi russi di infiltrare il Bundestag, oggetto di attacchi  cyber. E nei paesi considerati dalla Russia più “penetrabili” si moltiplicano i tentativi per sottrarre informazioni riservate Nato.

L’Italia, dando risalto a una operazione di intelligence di proporzioni modeste, ha voluto dare un segnale su questo, sia a Mosca che di riflesso a Washington. Finita la presidenza Trump e con il livello di tensione attuale fra Washington e il Cremlino, non è una fase che consenta ambiguità.

Se le motivazioni del governo italiano sono abbastanza semplici da leggere, è più complicato analizzare i contorni della strategia della Russia verso l’Europa. Come indica l’esito fallimentare della visita compiuta a Mosca nel febbraio scorso da Josep Borrell, Alto Rappresentante della politica estera europea, la Russia di Putin considera ormai l’Ue un “partner inaffidabile” (secondo la definizione utilizzata pubblicamente da Serghej Lavrov, dominus della politica estera russa).

Non da oggi, Mosca gioca la carta dei rapporti bilaterali, puntando ad accentuare le differenze di posizione fra i paesi europei. La novità è che il Cremlino utilizza a questo fine non solo le tradizionali leve energetiche ma anche la diplomazia vaccinale (il caso Sputnik, dall’Ungheria alla Lombardia).

Soprattutto, Mosca combina ormai a questi incentivi “positivi” un’azione “negativa” in aumento, fatta appunto di infiltrazioni digitali, diffusione di fake news, spionaggio militare. Tutto questo su uno sfondo in cui il regime di Vladimir Putin, dopo avere teorizzato la “democrazia sovrana” come propria stella polare, rivendica di non avere alcuna spiegazione da dare all’Europa in materia di rispetto dei diritti umani (caso Navalny) e di interventi internazionali (dall’Ucraina alla Libia).

L’invio recente di 4000 soldati russi ai confini dell’Ucraina conferma che Mosca non è disposta a compromessi nella gestione di quella che considera una propria naturale area di influenza nello spazio ex-sovietico. Tenendo alta l’instabilità ai confini europei, la Russia punta fra l’altro ad aumentare il proprio peso contrattuale nel teatro euro-mediterraneo.

Il passaggio da Trump a Biden complica, d’altra parte, i calcoli di Mosca sulla possibilità di dividere Europa e Stati Uniti. Nonostante nodi altamente controversi come Nord Stream 2, la distanza fra i due lati dell’Atlantico  si è ridotta, almeno per questa fase iniziale. E le sanzioni, ormai coordinate, sono destinate a continuare.

Putin ha da tempo abbandonato l’idea che l’Europa possa garantire la modernizzazione tecnologica della Russia. Anche per questa ragione, Mosca sembra ormai intenzionata a stringere un matrimonio di convenienza con Pechino, correndo così il rischio di trovarsi poi nella condizione di junior partner della Cina.

Mosca sta facendo bene i suoi calcoli? Secondo quanto è emerso in un Convegno organizzato da Aspen Institute Italia e da Chatham House, la risposta è probabilmente negativa. La politica della Russia rende in effetti impraticabili le ricorrenti ambizioni di “reset” delle relazioni con Mosca: Joe Biden ha lasciato cadere  le illusioni iniziali dell’era Obama, anche se tratta con il Cremlino il controllo degli armamenti nucleari (proroga del Trattato New Start e negoziato con l’Iran) e discute di Afghanistan.

Emmanuel Macron, che fino a pochi mesi fa parlava di rilancio del dialogo bilaterale con Mosca, è passato a toni molto più duri; la nuova strategia di politica estera della Gran Bretagna post-Brexit individua nella Russia la principale minaccia alla sicurezza nazionale. Non è chiaro come si muoverà il paese centrale, la Germania post-Merkel: ma l’ascesa politica dei verdi tedeschi (contrari a Nord Stream 2) preoccupa Mosca.

Il clima è quindi destinato a peggiorare, nei rapporti fra Russia, Europa e Stati Uniti. In teoria, i paesi occidentali avrebbero tutto l’ interesse a recuperare la Russia, in una fase strategica dominata dalla competizione con la Cina. Nei fatti, è un obiettivo che non potrà essere perseguito senza un segnale di cambiamento da parte di Mosca.

La previsione più realistica, tuttavia, è che l’approccio della Russia non cambierà a breve termine perché appare connesso alla molla essenziale dell’ultima fase del putinismo: la preservazione del potere da parte dell’uomo “forte ma debole” (definizione di Foreign Affairs) del Cremlino. Solo in uno scenario più a lungo termine, la Russia sarà in grado di valutare i costi di questo progressivo distacco dall’Occidente.

Nei venti anni del proprio potere, Putin si è rafforzato prima grazie ai successi economici trainati dal prezzo del petrolio e poi, nel suo secondo decennio al Cremlino, grazie a un’ondata nazionalista galvanizzata dall’annessione della Crimea nel 2014. Il primo fattore ha perso peso e lo perderà ulteriormente con la transizione energetica; il secondo gioca sempre un impatto ma con ritorni politici decrescenti.

Nella terza fase che si è aperta, il leader del Cremlino non ha più molte leve a disposizione. È probabile che accentuerà la stretta autoritaria interna, insieme all’assertività esterna, per governare la Russia; e per garantire così gli interessi – in realtà parzialmente contraddittori – dei gruppi che lo sostengono (apparati di sicurezza, oligarchia economica, burocrazia).

Ma è una ricetta che complicherà ulteriormente le difficoltà della Russia, frustrandone le ambizioni da grande potenza e aumentando un’insoddisfazione sociale largamente connessa ai problemi dell’economia (crescita non diffusa e redistribuzione scarsa). La durezza con cui Mosca ha gestito il caso Navalny (con la sua denuncia della corruzione) va letta anche in questo ambito. Intanto, la storia insegna che una potenza in declino può essere altrettanto rischiosa di una potenza in ascesa.

È abbastanza evidente che i Paesi occidentali hanno compiuto errori di valutazione nella gestione delle relazioni con Mosca dopo il crollo dell’Urss, nel 1991. Parte della frustrazione attuale della Russia, e del suo distacco dall’Occidente, sono dipesi dalla percezione che gli Stati Uniti abbiano voluto imporre, dopo la vittoria della guerra fredda, una pace punitiva a Mosca. Da parte sua l’Europa, tanto più dopo l’allargamento ad Est, non è mai riuscita ad impostare una vera strategia unitaria verso la Russia.

Gli errori compiuti in passato non possono però spingere Stati Uniti ed Europa a giustificare le scelte attuali di Putin, che si tratti del caso Navalny o dell’intervento in Ucraina. L’Occidente può avere perso la Russia, alla fine del secolo scorso. Ma oggi è la Russia a perdere l’Occidente.


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