Alessandro Politi (Nato Foundation) spiega perché le scintille Draghi-Erdogan ricordano quelle Biden-Putin. Il segnale è politico: l’Italia è cambiata. Ecco perché
“Con questi dittatori, di cui però si ha bisogno per collaborare, bisogna essere franchi per affermare la propria posizione ma anche pronti a cooperare per gli interessi del proprio Paese, bisogna trovare l’equilibrio giusto”. La frase pronunciata ieri sera in conferenza stampa dal presidente del Consiglio Mario Draghi in relazione al cosiddetto “SofaGate” e al presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha scatenato la reazione di Ankara che ha convocato l’ambasciatore italiano.
Ma ha anche acceso il dibattito. C’è chi sposa appieno le dichiarazioni del presidente Draghi, dal Partito democratico alla Lega fino a Fratelli d’Italia che, a differenza delle prime due formazioni, è all’opposizione. C’è chi – forse dimenticando episodi noti in cui l’Occidente ha sostenuto autocrati vari in giro per il mondo e di qualsiasi colore politico – critica quel “di cui però si ha bisogno”, come Sinistra italiana. E chi, ancora, sostiene che sia inappropriato definire il leader turco un dittatore. Tra questi ultimi c’è Nathalie Tocci, direttore dello Iai, che via Twitter ha scritto: “La Turchia non è una dittatura e che ci piaccia o no (a me no) Erdogan vince elezioni dal 2002. È importante dare il giusto peso alle parole, altrimenti perdono di valore”.
Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation, si tiene alla larga dalla questione “dittatore sì, dittatore no”. Ma, raggiunto telefonicamente da Formiche.net, esordisce sottolineando che “il presidente Draghi non è certo persona distratta con le parole, mi pare assai improbabile che abbia agito d’impulso”.
A Politi le dichiarazioni di Draghi sembrano piuttosto un colpo a freddo, “come quello sferrato dal presidente statunitense Joe Biden” quando definì “assassino” Vladimir Putin rispondendo a una domanda nel corso di un’intervista televisiva. Allo stesso tempo, rileva l’analista, è un “segnale politico ben chiaro: l’Italia di oggi è molto diversa a quella a cui eravamo abituati”.
Un messaggio politico che il presidente Draghi ha espresso in linea con quanto annunciato sin dal suo insediamento al Senato: il posizionamento fermamente europeista e atlantista non soltanto del governo ma anche del Paese. Una linea seguita anche la scorsa settimana, con la reazione rapida e dura al caso di Walter Biot, il capitano di fregata arrestato mentre stava passava – e non era la prima volta – materiale top secret a un militare russo.
Colpisce il fatto che questo segnale politico abbia come “vittima” proprio la Turchia. Un Paese verso il quale l’Italia è sempre stata “colomba” nell’Unione europea assieme alla Germania, di cui il nostro Paese è secondo partner commerciale nell’Unione europea, che nel 2018 ha rappresentato per il nostro export militare la prima destinazione nella Nato e che ha un ruolo fondamentale in Libia, la “quarta sponda” che è stata teatro della prima missione all’estero del presidente Draghi.
Alla luce di ciò il messaggio sembra ancora più chiaro.
Qualche intellettuale potrebbe pensare che, anche in linea con l’amministrazione Biden, i diritti umani siano tornati tra le priorità dell’agenda politica italiana, europea, statunitense, perfino transatlantica. Politi, da storico analista, si limita a sottolineare machiavellicamente che “sono di nuovo uno dei tanti strumenti di cui la politica può e deve dotarsi. Ma anche la libertà religiosa lo è stato o lo è”.
Che questi strumenti poi siano usati a fini nobili o come leve politiche, è tutto da vedere.