I dieci velivoli di bandiera degli Emirati Arabi sono italiani. Stanno tirando il collo, ed è necessario un intervento per prolungarne l’idoneità al volo acrobatico fino al 2030, quando ci sarebbe il successore, verosimilmente italiano. Ma il progetto di assistenza è bloccato alla Farnesina, e altri competitor si leccano i baffi. Il caso “italiano” secondo il generale Leonardo Tricarico, già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare
Ormai non sappiamo più cosa inventare per metterci contro gli Emirati Arabi Uniti, ora che ci ha messo mano addirittura chi invece, per istituto, dovrebbe tutelare i buoni rapporti tra Paesi: il ministro degli Esteri. Soprattutto in questo caso, ossia quando si tratti di un Paese dal quale molto dovremmo farci perdonare: un drone Piaggio che non è mai decollato, una promessa di collaborazione nel settore aerospaziale evaporata prima ancora di nascere, una compagnia aerea decotta da salvare.
Qualcuno, a dire il vero, ci ha provato a recuperare le figuracce infilate negli ultimi quindici anni: il neo insediato ceo di Finmeccanica nel 2011, quale suo primo atto formale, scrisse una lettera a Sheikh Mohammed, chiedendogli in pratica scusa per la qualità del rapporto fino allora intrattenuto e offrendo nuove prospettive per una più fattiva e leale collaborazione. Con risultati purtroppo ben lontani dal far cadere scetticismo e circospezione.
Meglio invece fu capace di fare l’Aeronautica militare, la quale, traendo spunto dal desiderio emiratino di avere una propria pattuglia acrobatica con i cui colori aprire l’annuale salone aerospaziale di Abu Dhabi, gliene mise in piedi una propria, “Fursan al Emarat”, i Cavalieri degli Emirati, le loro Frecce tricolori, una pattuglia assolutamente capace di reggere il confronto con le altre pattuglie che si esibiscono in giro per il mondo. Per l’occasione, addestrammo i piloti emiratini per due anni, fornimmo loro i velivoli, gli MB 339 PAN (gli stessi che equipaggiano le Frecce tricolori), e distaccammo in loco, dove tuttora opera, un pilota esperto ex PAN con il compito di supervisionare l’addestramento e la proficiency di Fursan al Emarat.
Ed è proprio sui dieci velivoli bandiera degli Emirati che si è indirizzato l’ennesimo affronto italiano, quello che sembra aver fatto incagliare un’altra volta la collaborazione di Leonardo con gli Emirati. Più in particolare, i dieci velivoli Aermacchi emiratini, come quelli italiani, stanno tirando il collo; la loro vita tecnica si approssima al capolinea ed è necessario un provvedimento rigenerativo volto a prolungare fino al 2030 la loro idoneità al volo acrobatico, data alla quale entrerebbe in linea il successore, un altro velivolo verosimilmente italiano.
Invece, il progetto di assistenza tecnica, contenuto in un apposito contratto pronto ad essere sottoscritto da Leonardo, ha subito la stessa sorte riservata all’esportazione dei materiali di armamento verso altri Paesi dell’area, nel calderone del rigurgito pacifista che ha coinvolto di recente parte del mondo politico, della magistratura e del governo, sistematicamente esposti nel nostro Paese ad ogni stormir di fronda anziché essere incardinati a una stabile, doverosa e seria valutazione dell’interesse nazionale.
Tra l’altro – spero non sia vero – sembra vi sia una lettera della Farnesina con cui si subordina il mantenimento in efficienza dei velivoli emiratini all’impegno formale acché gli stessi non vengano usati come velivoli da guerra. A prescindere dal fatto che una clausola di tal tipo dovrebbe già essere inserita nel contratto di fornitura iniziale, una richiesta del genere, esulando dal dettato della fin già troppo rigorosa norma di legge del settore, pare concepita apposta per esacerbare gli animi di chi si era visto additato come cliente problematico ed associato ad operazioni belliche in dispregio dei diritti umani; una sollecitazione irriguardosa rivolta per giunta ad un Paese dal quale avremmo molto da farci perdonare.
Il risultato certo, al momento, è quello di un’ulteriore perdita di credibilità e di una rinnovata diffidenza nei nostri confronti. Il risultato probabile, invece, è di essere in procinto di perdere una “opportunità bandiera”, modesta forse nelle dimensioni, ma assai emblematica nei contenuti, per la quale tanto e con tanto merito si era spesa la nostra Aeronautica; tutto questo a favore di altri Paesi che hanno già annusato l’affare e che stanno già promuovendo i loro prodotti con cui rimpiazzare l’Aermacchi italiano.
Credo che una riflessione in materia non possa essere ancora dilazionata. Le proposte non mancano e, in attesa di una definizione organica e compiuta delle regole del gioco, pare comunque urgente e non più differibile sottrarre decisioni così importanti dalle sole mani della Farnesina, che rischia di volta in volta, come in questo caso, di restare vittima del richiamo della foresta della forza politica che esprime il ministro di turno. Decisioni che incidono in maniera così profonda e duratura sull’interesse nazionale dovrebbero invece essere adottate dal governo nel suo complesso, come era inizialmente previsto dalla legge che regola il settore (la 185/90), la quale non lasciava spazio a decisioni sconsiderate in solitario, e che invece una improvvida modifica, eliminando l’organo governativo collegiale previsto dalla legge, ha provocato i risultati sotto gli occhi di tutti.