Formiche.net pubblica in anteprima un estratto del libro di Gianluca Ansalone, “Geopolitica del contagio” (Rubbettino). Le democrazie occidentali, rese più fragili dalla pandemia, saranno (e già lo sono) sotto attacco dei sistemi autoritari. Ma la forza dei valori e della scienza saranno la base per un rilancio globale
L’Occidente non sarà più lo stesso dopo la pandemia. Il virus si sta dimostrando l’agente politico di cambiamento più potente e pericoloso di questo nuovo ventennio, un agente che accelera ed esaspera molte dinamiche già in atto e di cui ci siamo accorti troppo tardi. […]
Abbiamo dato per scontata e irreversibile la democrazia, abbiamo concentrato i nostri sforzi sull’allargamento dei diritti, senza interrogarci sul ruolo dei doveri nel garantire una convivenza matura. Abbiamo preferito elevare al potere non chi esprimeva il dubbio, utilissimo al progresso, ma chi dissacrava la competenza.
[…] Tutto ha avuto origine negli anni Novanta dello scorso secolo, il decennio della “grande distrazione”.
Un sistema politico ed economico, quello della democrazia liberale di mercato, aveva dimostrato nei fatti di essere più solido, più inclusivo e sostenibile delle economie pianificate socialiste. La fine della Guerra Fredda non fu infatti conseguenza di una sconfitta militare sul campo ma dell’implosione del blocco guidato dall’Unione Sovietica. È da lì che prese le mosse il sentimento del primato occidentale, per il quale le democrazie saranno pure sistemi imperfetti, ma niente e nessuno avrebbe avuto la forza e il coraggio di metterle in discussione all’interno di demolirle dall’esterno.
Ma nel mondo post-Covid l’unica certezza che avremo è che non bisognerà avere certezze, non si potrà dare nulla per scontato e perfino i pilastri del modello economico e politico dell’ultimo secolo saranno destinati a cambiare.
[…] Proprio nei mesi più duri della pandemia, Pechino ha lanciato il più ambizioso progetto di rivoluzione monetaria mai sperimentato, dicendo addio alle banconote e testando una valuta digitale e sovrana. La nuova moneta, conosciuta come Digital Currency Electronic Payments (DCEP) sarà il veicolo attraverso il quale imporre lo yuan a livello globale.
Già oggi la maggior parte delle transazioni al dettaglio in Cina vengono effettuate con app di pagamento digitali, come Alipay (di Alibaba) o Wechat pay. Ma siamo ancora in un contesto nel quale le transazioni vengono poi accreditate ai commercianti.
Con la DCEP si apre la prospettiva di una moneta digitale sovrana emessa dal governo, gratuita e del tutto uguale alle banconote stampate oggi. Pechino ritiene che in questo modo potrà non solo scongiurare una inevitabile guerra finanziaria con gli USA e con il dollaro ma che il suo successo potrà portare questa moneta digitale a diventare il prossimo standard internazionale di pagamento e perfino di riserva. Questo progetto è anche la risposta del Partito Comunista cinese al successo crescente delle criptovalute (come il Bitcoin o il Diem-Libra di Facebook), vietate in Cina già dal 2018 perché ritenute una seria minaccia alla sovranità e alla sicurezza.
Pechino ha così dato vita alla prima moneta ibrida della storia: è virtuale per sua natura ma coniata dalla Banca centrale, che ne mette a disposizione le garanzie. Una sperimentazione è già in atto nelle città di Shenzhen e Suzhou.
La sfida cinese è dunque economica, finanziaria e strategica allo stesso tempo. Ma, fatto forse ancora più rilevante, essa è soprattutto una sfida culturale. Il modello di autocrazia di mercato cinese è l’unica alternativa all’eredità del primato delle democrazie liberali che perfino la Guerra Fredda non aveva saputo scalfire.
Oggi, per le nostre democrazie, infragilite e inceppate, si apre una sfida senza precedenti: dimostrare di essere ancora efficaci, di poter garantire le migliori condizioni di sviluppo, prosperità e inclusività nel lungo termine. La sfida cinese è una sfida a questa visione.
Se è vero che questa pandemia ha avuto gli stessi effetti di una guerra, dobbiamo aspettarci che mentre ci avviciniamo alla fine dell’emergenza, il mondo si debba preparare ad affrontare anche una nuova Yalta. Il pianeta sarà con ogni probabilità diviso in nuove sfere d’influenza. La ricerca, la scienza, la salute saranno i fili di una nuova cortina di ferro.
La Cina ha già attivato tutti i canali necessari in questo senso. Avrà dalla sua non solo la forza dei numeri, con l’economia e la finanza globale che guarderanno a Oriente per ancorare le proprie prospettive di crescita, ma anche una narrativa che sta assumendo i contorni di vera e propria propaganda post-moderna.
A esserne protagonisti sono i cosiddetti wolf warriors, un gruppo di comunicatori selezionati tra diplomatici, esperti di social media, cyber attivisti, manager e esponenti politici, allineati sulla necessità di tutelare la credibilità politica e gli interessi di Pechino dalle accuse di Paesi percepiti come rivali.
Questo gruppo prende il nome da un celebre film d’azione, nel quale una divisione delle forze armate interviene in un Paese lontano per salvare cittadini cinesi in balia di un gruppo di mercenari occidentali.
Quella messa in piedi da Pechino non è solo un’efficace macchina di propaganda ma un’operazione politica di sistematica demolizione della credibilità degli avversari, anche attraverso un uso massiccio dei social media più popolari tra le nuove generazioni.
Siamo immersi nella più grave crisi globale dal Secondo Dopoguerra. Ne usciremo di certo. Grazie al progresso delle scienze saremo liberi da questo virus. Grazie al ruolo dell’industria farmaceutica potremo garantire questa libertà su scala planetaria. […] [Ma dobbiamo cominciare] ad occuparci della prossima.
Sarà il salto di specie di un nuovo, potente virus? Se così sarà potremo almeno dirci pronti a gestirne l’arrivo e le possibili implicazioni.
Sarà la proliferazione di un batterio resistente agli antibiotici? Dobbiamo accelerare oggi sulla ricerca per contrastarne gli esiti e la possibile diffusione.
Sarà un attacco cibernetico su vasta scala, in grado di mettere in ginocchio le nostre economie, la nostra società, la nostra sicurezza? Dobbiamo costruire un’alleanza globale per la smilitarizzazione del cyberspazio e per la difesa congiunta, sul modello dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO).
Sarà l’implosione di alcuni modelli e la inevitabile crisi sociale ed economica che colpirà l’Occidente dopo la pandemia? Dobbiamo pensare oggi a dare profondità strategica alle nostre decisioni, uscendo dalla logica insostenibile dei sussidi e creando le migliori condizioni per rendere i nostri territori competitivi ed attrattivi per i capitali, le merci, il sapere ed i talenti che torneranno a muoversi.
Sarà l’impatto della crisi climatica che già nel prossimo decennio potrà avere conseguenze devastanti non solo sull’ambiente ma anche sulla sicurezza delle Nazioni? Dobbiamo immediatamente creare un modello di adattamento a questo cambiamento ormai irreversibile e mettere in sicurezza i nostri sistemi, evitando di superare la soglia critica di una catastrofe climatica su larga scala.
Sarà la competizione geostrategica delle autocrazie che, rinvigorite dalla debolezza delle democrazie fiaccate dal virus, approfitteranno per recriminare la leadership globale? Dobbiamo rafforzare i princìpi e modernizzare i sistemi democratici perché si dimostrino efficaci, competitivi e in grado di dettare l’agenda anche nel nuovo mondo.
Qualunque sarà la fisionomia della prossima crisi, usciamo dalla pandemia da Covid-19 molto più deboli, fragili ed insicuri. L’unica cosa però da non fare è perdere l’occasione per guidare il cambiamento o quanto meno plasmarlo con i nostri valori ed i nostri obiettivi. In fondo il successo della scienza nella corsa al vaccino è una notizia positiva anche sotto il profilo strategico: l’Occidente ha ancora molto da dire e da fare. Occorre riportare al centro il valore della competenza e la capacità di cogliere ed affrontare la complessità. Bisogna ricucire il rapporto di fiducia tra politica, scienza, cittadini e imprese. Il pregiudizio nei confronti degli scienziati o delle multinazionali si alimenta della sfiducia dei cittadini verso la politica.
Le democrazie vivono e si rafforzano anche attorno ai simboli. Joe Biden ha usato i primi giorni alla Casa Bianca per ribaltare la condotta e la narrativa del rapporto con la scienza rispetto al suo predecessore. Ha innanzitutto firmato una serie di ordini esecutivi per imporre l’uso della mascherina in tutti gli uffici pubblici federali e per tutti gli spostamenti interni. Ha ripristinato i finanziamenti all’Organizzazione Mondiale della Sanità e annunciato il rientro di Washington negli Accordi sul clima di Parigi. Ha promesso cento milioni di vaccinati entro i primi cento giorni del suo mandato. Ha nominato Eric Lander, genetista di fama mondiale, a capo dell’Ufficio per le politiche scientifiche e tecnologiche, promuovendolo a rango di Ministro.
E’ la prima volta che accade nella storia degli Stati Uniti, per un incarico che Trump aveva lasciato addirittura vacante per tutto il suo mandato. Biden ha anche sostituito nello Studio Ovale il ritratto del controverso Presidente Andrew Jackson con quello di Benjamin Franklin, padre fondatore e uomo di scienza. Abbiamo appena combattuto una delle battaglie più dure e difficili della storia contemporanea contro un nemico invisibile. Se sarà servito ad affinare le armi della prevenzione, della cooperazione globale, del dialogo e della compartecipazione di tutti, governi e cittadini, agli stessi obiettivi, allora questa crisi devastante non sarà passata invano.
Viceversa, avremo solo posticipato il prossimo appuntamento con la Storia.