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Disagio mentale, per i giovani non è tutta colpa della pandemia

Di Giusi Sellitto
giovani disagio

Secondo Giusi Sellitto, neuropsichiatra presso una delle UONPIA (Unità Operativa di NeuroPsichiatria per l’Infanzia e Adolescenza) dell’ASST Santi Paolo Carlo, la crescita del disagio mentale nei giovani non è tutta colpa della pandemia. Già in precedenza, infatti, la paura di soffrire ci ha reso ancora più fragili, una fragilità che si è aggravata con l’arrivo del Covid

I giovani sono i più colpiti da disturbi di ansia, di umore e del comportamento dagli effetti del lockdown. Lo conferma uno studio dell’Università di Copenaghen pubblicato su The Lancet Regional Health Europe analizzando i risultati di sette ricerche su oltre 200mila persone in Danimarca, Francia, Paesi Basse e Gran Bretagna.

È vero, è innegabile è sotto gli occhi di tutti: la pandemia ha comportato rinunce e restrizioni sempre più difficili da tollerare, così come è altrettanto evidente che l’assenza della scuola non ha penalizzato solo l’apprendimento della conoscenza, ma è stata soprattutto una perdita di occasioni, esperienze, socialità, tutto ciò che è vita e ancor più in adolescenza.

Il Covid-19 è stato un enorme stress test. Abbiamo osservato che sono state amplificate situazioni già pre-esistenti. Nel caso di una tendenza depressiva per esempio, ci sono stati forti aggravamenti, così come per quei ragazzi con difficoltà nel controllo, si son registrate magari esplosioni di rabbia, o un aumento dell’abuso di droghe, atti di autolesionismo. Eppure, pandemia a parte, il crescente disagio psichico a cui stiamo assistendo, ha che fare con una perdita che è avvenuta ben prima del Covid-19, la perdita dell’attesa. Non siamo più in grado di aspettare, stare, sopportare.

Forse dovremmo fermarci a riflettere che il male più atroce è la paura, la paura di soffrire. Il dolore mentale è insopportabile, o almeno così si pensa, si ha paura della sofferenza, si crede di non poterla sopportare, tenere, contenere, superare. Uno dei comportamenti sempre più diffuso in adolescenza, soprattutto tra le ragazze, è il cutting: l’atto di tagliarsi la pelle con un oggetto affilato (lamette, temperini e simili) senza avere l’intenzione di uccidersi. È una forma di autolesionismo attuata in modo deliberato e ripetitivo. Il cutting viene provocato anche per espiare una colpa, una punizione, infiggere un dolore per superane un altro più potente, più prepotente più invadente, sconosciuto, incontrollabile. Emerge il bisogno di rendere visibile la sofferenza e spostare il dolore mentale a dolore fisico.

Ci troviamo di fronte ad una generazione particolarmente fragile e quindi incapace di gestire una situazione straordinaria come quella che abbiamo vissuto e stiamo tutt’ora vivendo. È una generazione iper protetta. I genitori fanno di tutto per garantire loro felicità e benessere. Con la convinzione che eliminare qualsiasi ostacolo dalla strada dei figli, sostituendosi a loro, o controllandoli – nel senso più letterale del termine – li possa tutelare. Li si priva della possibilità di mettersi alla prova, di crescere e quindi di sviluppare una sana autostima. E così gli adolescenti crescono ignari di avere delle risorse, non sanno che possono reagire, e quando vivono un dolore, hanno fretta di “eliminarlo” non sono abituati a contattarlo.

Siamo stati abituati ad aver paura della sofferenza, allontanarla, ci hanno inondato di istruzioni, corsi, master su come evitarla, superarla, invece forse, dovremmo semplicemente imparare un po’ a sopportarla. Per riuscire a stare nel dolore del figlio, certo bisogna avere sufficiente spazio per stare nel proprio dolore e anche in quello del bambino interno che viene fuori di continuo – e non cessa con il diventare genitore. È tutt’altro che semplice.

Dovremmo iniziare a considerare la sofferenza e la paura non come le cattive della storia ma come il motore del successo, la radice dei fallimenti. Andare dietro alla sofferenza e alla paura, forse è l’unico modo di abbatterle, considerarle come la nostra guida, il nostro pioniere. Accettare talvolta di fermarci, “so-stare” ed imparare a non sentirci “falliti” solo perché ci sentiamo scarichi.

Per Winnicot (1965) si deve “Tenere duro nel ruolo di sostegno, giocando sul tempo”. Tenere duro significa sopravvivere alla sfida adolescenziale, saper rispondere al momento giusto, ai bisogni acuti. A noi la difficile condizione di saper aspettare, con tutto ciò che emotivamente comporta, senza né essere interventisti, né passivi, ma ponendoci come un oggetto presente, capace di percorrere con loro, pur rispettando la libertà, il cammino che devono compiere da soli, verso il mondo adulto.

No, forse non andrà tutto bene, avremo ancora paura, ma sarà importante non patologizzare necessariamente la sofferenza, riconoscerla, sopportarla e quindi superarla. Anche questa è crescita.

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