Aumenta la pressione di Washington sul più grande produttore di semiconduttori al mondo. Oltre alle tensioni militari con la Cina, che fa le simulazioni di un’invasione dell’isola, ora ci si mette anche la siccità, che condiziona un settore ad altissimo consumo d’acqua
TSMC, l’azienda taiwanese che controlla oltre metà del mercato globale di semiconduttori, torna al centro del tiro alla fune tra Cina e Usa. Crescono le pressioni americane per allontanare la compagnia da Pechino, oggetto di sanzioni americane su questo tipo di tecnologia, e prediligere il mercato occidentale per la vendita dei chip tanto strategici quando scarseggianti.
La settimana scorsa il Dipartimento del commercio statunitense ha inserito nella sua “lista nera” sette produttori cinesi di supercomputer, tra cui Phytium, una compagnia basata a Tianjin (a sudest di Pechino) e correlata al distaccamento di ricerca militare del Partito-stato.
Un articolo apparso il giorno dopo sul Washington Post ha rivelato che TSMC riforniva Phytium della tecnologia utilizzata nei missili ipersonici. La reazione non si è fatta attendere: nel giro di pochissimi giorni, pur non essendo soggetta alle regole statunitensi, TSMC e Alchip (un altro produttore locale) hanno proattivamente sospeso le forniture.
“Le nostre compagnie osservano le regole americane, domestiche e multilaterali quando queste incontrano la domanda globale di microchip”, ha dichiarato mercoledì il ministro dell’economia taiwanese, Wang Mei-hua, pur negando che TSMC e Alchip sostenessero lo sviluppo militare cinese.
Questo è solo l’ultimo sforza da parte di Washington per minare la storica neutralità di TSMC, la cui strategia è sempre stata quella di essere “la fucina di tutti”. La scorsa estate l’azienda aveva sospeso le forniture a Huawei, l’azienda cinese strettamente legata al regime secondo gli americani, quando l’amministrazione di Donald Trump aveva detto che i chip venduti a quest’ultima erano utilizzati nei missili cinesi.
E ancora, a maggio 2020 TSMC aveva annunciato l’apertura di una fabbrica in Arizona (non lontana da quelle delle compagnie belliche Raytheon e Honeywell) in seguito a pressioni americane, volte a portare in patria almeno parte delle filiere produttive strategiche. Il 60% dei processori prodotti da TMSC finiscono negli Usa e, tra le altre cose, alimentano il “cervello” degli F-35.
È difficile che le pressioni americane intacchino i proventi di TSMC, scrive il Financial Times, perché la domanda globale è tale (e talmente in crescita) da garantire che l’azienda cada sempre in piedi. Altra questione sono le compagnie più piccole come Alchip, per cui Phytium rappresentava quasi il 40% degli introiti. La polarizzazione del mercato dei chip, destinata a incrementare, intaccherà pesantemente il mercato, la ricerca, lo sviluppo e i rapporti di fiducia tra le diverse realtà.
Tutto questo si colloca nella cornice della competizione geopolitica tra Usa e Cina, l’altra grande potenza tecnologia e importante mercato per i produttori taiwanesi di chip (il 20% dell’export TSMC finisce lì). Pechino, che considera Taiwan parte del proprio territorio nazionale, è profondamente consapevole dell’importanza dei chip per lo sviluppo tecnologico e dunque la propria competitività economica e bellica.
Negli ultimi mesi il posturing militare cinese intorno a Taiwan è aumentato e si è fatto più aggressivo. La posizione di Washington, al netto degli screzi sulle valute, assicura sostegno e difesa a Taipei, che a sua volta è apertamente ostile rispetto alle mire espansionistiche cinesi.
L’America, non volendo lasciare nulla al caso, sta cercando di convincere anche il Giappone – sempre più cauto nel rapporto con la Cina – a sostenere la causa di Taiwan. Nella dichiarazione che è seguita al loro primo incontro, il presidente americano Joe Biden e il premier giapponese Yoshidide Suga hanno fatto esplicito riferimento all’importanza di tutelare la stabilità nello Stretto di Taiwan.
Alle tensioni politiche e militari, negli ultimi giorni si è aggiunta la peggiore siccità degli ultimi 50 anni, che sta condizionando tutte le produzioni dell’isola, inclusa quella dei semiconduttori. TSMC infatti consuma circa 156 milioni di litri d’acqua al giorno nei suoi tre impianti (dati 2019), e secondo il Wall Street Journal punta a ridurre di un terzo il fabbisogno d’acqua per singolo componente nei prossimi dieci anni. Altre aziende dell’isola però sono in difficoltà: far arrivare l’acqua con camion avrà un impatto sul costo finale dei chip.