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Il cambio di paradigma e la terra incognita della PA del post pandemia

L’Italia, come noto, è il Paese dei 60 milioni di CT della Nazionale di calcio e di esperti della pubblica amministrazione: non c’è chi non abbia pronta da scodellare la propria, personalissima idea di come metter mano ai mali e alle disfunzioni della macchina amministrativa Italiana, magari attraverso la messa a punto della “madre di tutte le riforme”. Non può negarsi, tuttavia, che gli ultimi inquilini di Palazzo Vidoni abbiano sostanzialmente fatto propria una strategia meno aggressiva ma non per questo meno ambiziosa, tendente a rinunciare all’ennesima grande riforma ma mirante ad aggiustare, affinare e oliare gli ingranaggi. Come sempre, è la politica, con il Governo e le sue maggioranze a dettare l’agenda, ma sembra farsi strada, nel dibattito generale del Paese, l’idea che la PA non sia un costo per il sistema socioeconomico ma, a fronte di opportuni investimenti e oculata gestione, un asset strategico indispensabile per lo sviluppo nazionale attraverso i servizi per cittadini, famiglie e imprese. È una consapevolezza che lo tsunami della pandemia ha contribuito a irrobustire, rendendo palese la significatività dell’azione pubblica in una emergenza nazionale. Un’amministrazione eterogenea, “lunga” e “larga” come quella Italiana, è stata messa a dura prova dalle misure di contenimento del contagio che hanno gettato sul tavolo, senza troppi riguardi, l’esigenza di una gestione diversa della cosa pubblica. Gli osservatori più acuti lo hanno evidenziato con chiarezza: se il lavoro da remoto (smart working o lavoro agile, lo si chiami come si preferisce) è stata una novità necessaria, che sino a poco prima era poco presente, mal digerita e rigidamente adempimentalizzata dalle tante amministrazioni pubbliche, l’emergenza sanitaria ed epidemiologica ha scatenato un sisma organizzativo e gestionale che ha fatto fibrillare prassi e cultura amministrative profondamente radicate.

No: neppure un regime maturo di smart working risolverà tutti i problemi. Ci sono aspetti legati alla crescita digitale degli uffici, al reclutamento del personale, alla messa in piedi di strategie di investimento che devono imporre una profonda correzione alla rotta sinora tenuta nei confronti del nostro corpaccione amministrativo e che attengono alle scelte della politica. Eppure, a latere, c’è enorme spazio per decidere come si vogliano fare le cose e in quale maniera si intenda continuare a gestire la macchina, puntando verso un’innovazione che investa, in primo luogo, come le lavoratici e i lavoratori vedano sé stessi. Si tratta, oggi, di vincere la tentazione di fare marcia indietro, di ritornare nella comfort zone del conosciuto e di far rotta per quella che, a tutti gli effetti, è ancora terra incognita. Questi ultimi dodici mesi hanno mostrato, accanto alle tante criticità che non si è riusciti a superare compitamente (si pensi ai problemi del mondo della giustizia, ad esempio), che in tanti, alla prova con una sfida inaspettata, che li ha visti da un giorno all’altro a dover far fronte ai consueti impegni al di fuori del proprio, familiare recinto fisico e temporale, hanno retto. Non solo: una forzata, maggiore responsabilizzazione ha comportato un senso ritrovato del proprio lavoro. Come ha ricordato il CNEL nella sua recente relazione annuale sui servizi della PA, “quello che molti dipendenti hanno svolto da casa è stata una forma di lavoro da remoto estremo e vincolato, nella quale sono venuti a mancare i presupposti di volontarietà e flessibilità che sono alla base dello scambio tra autonomia nella scelta delle modalità di lavoro e responsabilizzazione sui risultati che dovrebbe qualificare lo smart working”.

Si è finalmente scoperto, tuttavia, che tornelli e presenza fisica non sono necessariamente decisivi per la riuscita della prestazione lavorativa e che, anzi, possono rappresentare il simbolo di un arcaismo amministrativo che cozza con un mondo che, là fuori, funziona con modalità molto diverse. Si è riscoperto un tempo diverso, non nella sua cadenza fissa e regolata (rassicurante, certamente) ma disarticolata e personale. L’emergenza ha comportato, altresì, esternalità diverse, portando spesso, soprattutto per le donne, ad un sovraccarico di attività per la commistione con l’onnipresente lavoro di cura, sommando ineguaglianza a ineguaglianza. E ha scosso certezze: lo svolgersi familiare della giornata di lavoro è profondamente cambiato, soprattutto per la dirigenza pubblica che si è trovata a gestire dinamiche di fatto sconosciute. Se è innegabile che i dirigenti costituiscano l’elemento fluidificante dell’azione amministrativa, cerniera tra le indicazioni della politica e l’organizzazione del lavoro dei dipendenti della struttura, quel flusso fortemente proceduralizzato e fondato sulla presenza fisica è stato, infatti, fortemente destrutturato. Non tanto nelle procedure stesse, che tali restano, ma nella modalità di farvi fronte, con l’onere del tutto nuovo di ricondurre a unità un panorama improvvisamente spezzettato ma del tutto capace di funzionare correttamente su basi diverse (si pensi, a mo’ di esempio, agli uffici che diventano, di fatto, spazi di co-working condivisi).

Siamo al passaggio culturale, al cambio di paradigma, che ha tutte le potenzialità per virare, una volta per tutte, verso l’attività per risultati, servendosi non solo della digitalizzazione dei processi (condizione necessaria ma non sufficiente), ma della loro profonda reingegnerizzazione. È una via che per la dirigenza ed il personale tutto si presenta senza sconti e che comporta il reimparare a camminare prima di poter mettersi a correre. Ed è il motivo per cui l’investimento principale non può che essere quello in formazione e reclutamento, portando nel patrimonio interno della PA, oltre alle indispensabili conoscenze amministrativo-contabili, quelle competenze che permetterebbero l’effetto fionda. Il futuro del lavoro pubblico andrà articolato sugli assi della negoziazione, della valutazione, della responsabilizzazione, e, soprattutto, su un elemento fondante: il lavoro agile, che ha riflessi importanti in termini di conciliazione vita/lavoro, scelte personali, impatti ambientali, attiene all’organizzazione del lavoro, ed è quindi principalmente servente al raggiungimento dei risultati propri di ciascuna struttura. Ecco perché una forma matura di smart working dovrà basarsi, lasciati alle spalle i vincoli dettati dall’emergenza pandemica, sulle esigenze della struttura stessa, sin nelle sue articolazioni fondamentali. L’intelligente applicazione dell’istituto deve essere correlata, quindi, alle reali necessità del singolo ufficio che, nel quadro delle indicazioni di legge e della contrattazione sindacale, dovrà utilizzare la leva nel modo più confacente ai suoi obiettivi, sia in termini di quanto, sia di quando. Si è appena all’inizio del cammino che, inutile negarlo, incontra forti resistenze: i prossimi mesi diranno se e come politica e amministrazione, alle prese con il delicatissimo dossier del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, saranno capaci di interpretare al meglio il cambiamento.

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