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L’intelligenza artificiale passa per il deep-tech. L’analisi del prof. Prati

Di Enrico Prati

Visto che il vantaggio tecnologico si traduce in vantaggio economico e di capacità di Difesa diventa urgente, per l’Italia e per la Nato, che strutture indipendenti governative e, in via complementare, intergovernative attivino competenze verticali sugli ambiti deep-tech. Dal numero di marzo di Airpress, l’analisi di Enrico Prati, senior scientist del Cnr, professore aggiunto di Quantum artificial intelligence al Politecnico di Milano

È sorprendente osservare come molti ingredienti fondamentali che hanno dato luogo alla rivoluzione del deep learning degli ultimi sei o sette anni fossero già presenti nella letteratura scientifica degli anni 90, inclusa quella italiana (si pensi solo ai lavori di Bruno Apolloni a Milano). Le ragioni per cui il fenomeno deep learning si è manifestato solo di recente sono correlate all’ecosistema tecnologico ed economico dei Paesi che ancora oggi guidano i nuovi sviluppi dell’intelligenza artificiale, ovvero gli Stati Uniti fin dagli albori degli anni 50 e la Cina da una decina di anni a questa parte.

I fattori di successo includono lo sviluppo di nuovi algoritmi, grazie a scuole di matematica capaci di identificare le aree-chiave per la competitività del proprio Paese. Un altro fattore è costituito dallo sviluppo dell’hardware, per il quale una spinta fondamentale è derivata dall’adattamento all’impiego per l’Ia delle schede grafiche concepite per svolgere calcolo parallelo. Un fattore altrettanto rilevante è stata poi la creazione di piattaforme open source, nate da comunità di sviluppatori e passate nelle mani delle aziende hi tech, come Tensorflow di Google, che ha soppiantato Theano. Tutti questi fattori sono stati necessari al decollo del deep learning.

I loro benefici sono ormai di pubblico dominio e alla portata di tutte le tasche, considerando che si ottengono risultati un tempo inimmaginabili con una Gpu da cento euro. Fattori rilevanti e necessari dunque, ma non sufficienti alla piena valorizzazione dell’intelligenza artificiale a livello di Paese. Vi sono infatti altre due condizioni per conseguire un vantaggio economico e geopolitico dall’Ia, cioè il cloud (molte funzioni basate sull’intelligenza artificiale di un cellulare interrogano un data center remoto) e lo storage di big data per il salto di qualità dell’addestramento dell’Ia.

Tali fattori sono appannaggio delle public company americane (Google, Amazon, Facebook, AirBnb) e cinesi (Alibaba), che sono anche i principali investitori nell’Ia, e delle strutture deputate alla Difesa degli Stati, che in alcuni casi hanno interpretato in maniera massimalista l’offerta di nuove possibilità offerte, come testimoniato dalla videosorveglianza di massa in Cina o a Singapore. I colossi tecnologici americani sono nati come start up e hanno sostituito, partendo da zero, le storiche società a maggiore capitalizzazione degli Usa del XX secolo in meno di trent’anni. Osservando il passato, ci si aspetta che anche la nuova Ia si baserà sulle tecnologie oggi emergenti: Brain machine interface (Bmi), computer quantistici e computer neuromorfici.

Mentre il Bmi è finanziato e guidato negli Stati Uniti dal programma della “Third generation Ai” della Darpa, i nuovi computer sono divenuti appannaggio di public company e start up finanziate da fondi di venture capital. L’intelligenza artificiale e i computer quantistici sono ampiamente discussi nel rapporto Nato science and technology trends dell’omonima Nato S&T organization, dedicato alle prospettive tecnologiche dei prossimi vent’anni. Visto che il vantaggio tecnologico si traduce in vantaggio economico e di capacità di Difesa diventa urgente, per l’Italia e per la Nato, che vengano attivate competenze verticali sugli ambiti deep-tech da strutture indipendenti governative e, in via complementare, intergovernative come l’A3IC recentemente proposto da Andrea Gilli del Nato defense college, per generare innovative worksplaces destinati a una innovative workforce.

Per converso, i fondi di investimento italiani potrebbero far decollare start up deep-tech nella penisola, estendendo l’operatività anche oltre i confini nazionali, come è loro prassi, guardando agli altri Paesi della Nato con i quali già si condivide un ecosistema tecnologico. La disponibilità di capitali tuttavia da sola non è sufficiente, perché occorre un pool elevato di progetti per selezionare panieri di start up con speranza statistica di un ritorno. Oggi, in Italia, il neo-laureato e il neodottore di ricerca non prendono generalmente in considerazione la possibilità di avviare una start up e preferiscono cercare lavoro. È l’anello mancante, che richiederebbe attivazioni sinergiche tra ministeri con competenze diverse come Università e ricerca, Innovazione e Sviluppo economico.

Solo con un’azione sistematica di stimolo all’emersione e protezione dei talenti si può amplificare l’applicazione di pratiche ispirate dall’analisi dei programmi di start up in Paesi come Stati Uniti, Israele e Canada. Tale analisi dovrebbe portare ad aggiornare la normativa e rivedere i regolamenti delle università in fatto di creazione di spin-off da parte dei loro dipendenti e dei dottorandi. In conclusione, dal momento che siamo assistendo a una transizione tecnologica del substrato hardware, in particolare verso computer quantistici che offriranno nuove possibilità di calcolo, si presenta l’occasione per l’Italia (e per la Nato) di incrementare la propria capacità di difesa da fattori endogeni ed esogeni.

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