Peter Rashish, direttore del Geoeconomics Program dell’American Institute for Contemporary German Studies della Johns Hopkins University, spiega perché l’intelligenza artificiale sembra oggi uno dei temi su cui Usa e Ue (con il Giappone) possono sfidare l’approccio cinese alla tecnologia basato sul controllo dello Stato
La proposta europea per regolamentare l’intelligenza artificiale, la prima al mondo nel genere, ha incassato l’endorsement statunitense. Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente statunitense Joe Biden, ha twittato: “Gli Stati Uniti accolgono con favore le nuove iniziative dell’Unione europea sull’intelligenza artificiale. Lavoreremo con i nostri amici e alleati per promuovere un’intelligenza artificiale affidabile che rifletta i nostri valori condivisi e l’impegno a proteggere i diritti e la dignità di tutti i nostri cittadini”.
L’IMPEGNO USA
Una dichiarazione importante per due ragioni, spiega a Formiche.net Peter Rashish, direttore del Geoeconomics Program dell’American Institute for Contemporary German Studies della Johns Hopkins University, già vicepresidente per Europa ed Eurasia della U.S. Chamber of Commerce. La prima: “Indica che l’amministrazione Biden è impegnata ad allineare gli approcci degli Stati Uniti e dell’Unione europea all’intelligenza artificiale prima che entrambe le parti si muovano troppo autonomamente”.
La seconda: “Sullivan mostra il suo sostegno a un approccio che mette al primo posto i valori, come la fiducia e la centralità dell’individuo”, questioni che guidano la strategia europea, osserva Rashish. Che aggiunge: “L’intelligenza artificiale sembra essere oggi uno dei principali temi su cui gli Stati Uniti e l’Unione europea affronteranno sui valori la Cina, che offre chiaramente una visione alternativa dell’intelligenza artificiale basata sul controllo dello Stato”.
GLI INTERESSI CONDIVISI
Secondo Rashish gli Stati Uniti avranno “maggiore possibilità di successo” nel forgiare un approccio comune con l’Unione europea mettendo “in primo piano gli interessi economici transatlantici condivisi, piuttosto che l’ostilità nei confronti della Cina”. Ci sono dossier su cui Stati Uniti e Unione europea “già sembrano muoversi nella stessa direzione”, continua indicando le misure di trade enforcement e la sicurezza della supply chain.
A tal proposito, l’esperto indica la necessità di “aspetti di sostenibilità ambientale ma anche l’ambizione di rendere il mercato dei medicinali o dei componenti hi-tech meno dipendenti da un singolo fornitore come la Cina”. È “possibile”, aggiunge, che il presidente Biden faccia con l’Unione europea “qualcosa di simile” a quanto fatto con il primo ministro giapponese Yoshihide Suga, con cui ha concordato, tra le altre cose, un investimento congiunto di 4,5 miliardi di dollari per lo sviluppo del 6G.
LA SPONDA GIAPPONESE
Proprio “il processo trilaterale tra Stati Uniti, Unione europea e Giappone è l’unica cosa buona che rimane della politica commerciale dell’amministrazione Trump”, prosegue l’esperto. “Ma deve andare oltre”. Il primo passo è “aggiornare i concetti di state-owned enterprise e di ciò che costituisce sussidio” affinché “le future regole commerciali coprano maggiormente il comportamento economico della Cina”.
Rashish però avverte: i tre “dovranno essere pragmatici: le possibilità di concordare nuove regole nell’Organizzazione mondiale del commercio non sono alte al momento. Per questo dovrebbero firmare un accordo multilaterale tra loro” che includa “un impegno ad armonizzare gli approcci all’applicazione delle loro politiche commerciali, non solo tra di loro ma anche a Paesi terzi”. Una volta trovata l’intesa, conclude l’esperto, “dovrebbero invitare altri Paesi like-minded come Canada, Messico, Regno Unito e Australia, il che avrebbe un impatto ancora maggiore”.