Se proprio non se ne può fare a meno, bisognerebbe stabilire dei rigidi vincoli temporali all’intervento dello Stato nelle imprese. Ma nel dubbio, meglio raddoppiare gli interventi nella spesa per opere pubbliche e dimezzare quello nel salvataggio delle aziende. Il commento di Giorgio La Malfa, ex ministro del Bilancio
Durante le crisi economiche di particolare gravità, come quella del 1929 o quella del 2008 ed oggi quella causata dalla pandemia, un gran numero di imprese bancarie o non bancarie rischia il dissesto. Se si tratta di imprese di una certa dimensione, magari con una lunga storia alle spalle e con posizioni significative sui mercati, è molto difficile per gli Stati voltare la testa dall’altra e dichiarare che si tratta di quella “distruzione creativa” che Schumpeter considerava la caratteristica propria delle economie capitalistiche. Gli interventi sono largamente inevitabili e sono stati praticati in tutte le circostanze ricordate. Ma non sono una buona cosa, almeno nell’esperienza italiana di questi anni.
Intanto non li si chiami interventi keynesiani e non si usi Keynes per giustificarli. Keynes, che non era affatto corrivo agli interventi dello Stato, pensava che la via maestra per fare uscire le economie da una fase di depressione fosse una politica monetaria di bassi tassi di interesse – il Quantitative Easing, diremmo oggi. Quando questa si fosse dimostrata inefficace o insufficiente, allora sarebbe stato necessario intervenire con programmi di investimenti pubblici, non con il finanziamento in deficit delle spese correnti. Non ci sono riferimenti nei suoi scritti agli interventi dello Stato nel capitale delle imprese, ma certo avrebbe potuto accettarli solo come misura temporanea per superare il picco della crisi.
Il vero problema degli interventi dello Stato nel capitale delle imprese è se si tratti davvero di interventi temporanei, seguiti dalla collocazione delle azioni acquisite dagli Stati in mani private o si tratti invece di interventi che fanno dello Stato un azionista stabile delle imprese da salvare. Negli Stati Uniti dopo il 1929 vi furono di questi interventi, ma già nel 1937 tutto era stato restituito al mercato. Anche nel 2008 negli Stati Uniti il governo federale è intervenuto, ma è poi uscito dal capitale.
In Italia nel 1933 l’Iri nacque come ente provvisorio che avrebbe dovuto cedere al mercato le partecipazioni acquisite attraverso i salvataggi bancari. Ma nel 1937 esso venne trasformato in un ente senza scadenza. I privati richiesti dall’allora Presidente dell’Iri, Beneduce, di riprendersi le imprese di cui l’Iri era divenuto azionista, fecero presente al governo dell’epoca di non essere in condizioni di rilevare nulla. Fu una fortuna che il regime avesse affidato l’Iri a due uomini del calibro di Beneduce e di Donato Menichella se quell’operazione si trasformò in un fattore di grande e positiva trasformazione dell’economia italiana. Ma il miracolo non si è mai ripetuto.
Il rischio è che l’intervento dello Stato nel capitale consenta di rendere stabili le perdite avendo un azionista in grado di ricapitalizzare le imprese che continuano ad essere in difficoltà. Può essere considerato un intervento provvisorio quello dello Stato nell’Alitalia? Non rischia di essere una seconda Alitalia l’intervento nell’Ilva di Taranto? Allora, se proprio non se ne può fare a meno, bisognerebbe stabilire dei rigidi vincoli temporali all’intervento dello Stato nelle imprese – un obbligo ad esempio di mettere sul mercato entro 5 anni dall’ingresso le azioni acquisite. Ma dov’è il consenso politico per una impostazione di questo genere?
Dunque sarei molto prudente nell’autorizzare l’ingresso dello Stato nel capitale. In genere non è una buona idea e soprattutto lo Stato rischia di coprire il mantenimento nel tempo delle cause del dissesto. Preferirei raddoppiare gli interventi dello Stato nella spesa per opere pubbliche e dimezzare quello nel salvataggio delle imprese.