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L’Italia, il G20 e le tre ferite al commercio mondiale

L’Italia, nella sua veste di presidente di turno del G20 dovrà cercare di curare, almeno in parte, le tre ferite principali al commercio mondiale inferte dalla pandemia. Ecco quali nell’analisi di Giuseppe Pennisi

Poco se ne parla ma è un compito gravoso. L’Italia, nella sua veste di presidente di turno del G20 dovrà cercare di curare, almeno in parte, le “ferite” al commercio mondiale inferte dalla pandemia.

Secondo i dati più recenti dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), nel 2020 l’ex-import internazionale ha subito una contrazione del 9,2%, dopo avere segnato un incremento del 7,2% nel 2019. All’inizio di quest’anno, si sperava in un rapido rimbalzo, ma le indicazioni preliminari, basate sul primo trimestre 2021, parlano di un nuovo calo. La pandemia continua ad infettare e fare vittime, anche se i programmi di vaccinazione in atto fanno sperare in un marcato affievolimento entro l’autunno, nei Paesi Ocse. Continuerà, però, ad imperversare in numerosi Paesi in via di sviluppo e da là a continuare ad infettare il resto del mondo. A questi effetti strettamente legati alla pandemia che incideranno sempre meno quanto più il Covid-19 sarà sotto controllo, si aggiungono quelli, più gravi, di medio e lungo periodo su cui meno si è riflettuto ma che potranno avere effetti molto pesanti. Le vere e proprie “ferite” al sistema del commercio mondiale.

Una riflessione su questi temi (in gran misura ignorati nel dibattito politico) si è potuta fare in tre seminari organizzati dal dinamico Istituto Bruno Leoni, in collaborazione con l’Ups. Vale la pena riprenderne alcuni spunti che possono essere utili ai lavori di preparazione al G20 in cui, a torto od a ragione, ci si aspetta che la presidenza (ossia l’Italia) ponga sul tavolo proposte concrete.

La prima “ferita” è il dilagare dell’intervento pubblico, anche nel commercio internazionale, come elemento principale delle politiche, dei programmi e delle misure di sollievo a settori e categorie più colpite dagli effetti economici della pandemia. Sono state introdotte misure protezionistiche, a volte poco palesi, che hanno fortemente minato la regole di fondo dell’Omc. Tanto che la stessa Omc era indebolita con uno degli Stati membri più importanti (gli Stati Uniti) apertamente favorevoli ad accordi bilaterali (piuttosto che a regole multilaterali), con l’Unione europea (Ue) che proponeva programmi poco meditati di riforma, con un direttore generale in scadenza e con la propria funzione giurisdizionale impedita dalla mancata nomina dei giudici per sostituire quelli scaduti.

La seconda “ferita” è, in gran misura, un corollario della prima. La risposta alla pandemia ha causato una dilatazione dell’indebitamento delle pubbliche amministrazioni sia nei Paesi Ocse sia in quelli in via di sviluppo. Il forte indebitamento ha sempre causato politiche restrittive agli scambi internazionali oppure accordi bilaterali invece di un sistema multilaterale.

La terza “ferita” è la “nazionalizzazione” dei programmi vaccinali (Usa, Regno Unito, India) bloccandone o limitandone il libero commercio su base multilaterale. I programmi vaccinali saranno di medio periodo sia perché saranno necessarie vaccinazioni ogni anno o quasi sia perché le prospettive sono che il Covid 19 diventerà endemico come molte altre malattie infettive. Quindi, la “nazionalizzazione” minaccia di diventare permanente o quasi.

La materia è molto complessa e non si vede una soluzione facile. Una proposta ipotizzabile è quella che in seno all’Omc si prepari e si approvi un protocollo su cosa fare in caso di pandemia per tutelare priorità nazionali mantenendo però un quadro multilaterale. Tale quadro dimostra da 75 anni di essere il più efficiente, il più efficace ed il più libero.


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