La commissione Esteri del Senato ha iniziato una serie di audizioni sull’accordo sugli investimenti Ue-Cina. Lucio Malan, esponente di Forza Italia e co-presidente dell’Alleanza Inter-Parlamentare sulla Cina (Ipac), spiega i suoi dubbi
Più studiamo il Cai, il Comprehensive Agreement on Investment con la Cina, meno capisco perché l’Unione Europea ha accettato questo testo, che non è ancora ratificato dal Parlamento europeo, ma è certamente il punto di arrivo delle trattative. Dopo aver audito il mese scorso Carlo Pettinato, capo dell’Unità investimenti e proprietà intellettuale della Commissione europea, che ha guidato le negoziazioni da parte europea, questa settimana in commissione Esteri del Senato abbiamo audito l’ambasciatore della Repubblica popolare cinese in Italia Li Junhua.
Né l’uno né l’altro, rispondendo alle domande che io e altri colleghi abbiamo formulato, hanno saputo dirci come potremmo spiegare diversi aspetti problematici di questo accordo che si presenta asimmetrico, e sempre a favore della Cina. Infatti, l’accordo preclude, per esempio, agli europei qualunque tipo di investimento nella comunicazione cinese, mentre la Cina da anni entra nei mezzi di informazione europei non esitando certo a esercitare una influenza politica, probabilmente non estranea a come è stato scritto l’accordo stesso. Su questo l’ambasciatore semplicemente non ha risposto.
Come potremmo spiegare ai nostri elettori – ho anche domandato – e ai lavoratori italiani che vedono tanti posti di lavoro spostarsi in Oriente che facilitiamo gli investimenti quando la Cina non ha ancora sottoscritto gli accordi internazionali sul lavoro forzato? La grande superpotenza non riesce a fare una cosa così semplice? L’ambasciatore Li ha detto che le leggi cinesi non consentono il lavoro forzato, ma allo stesso tempo ha ammesso che c’è, come se fosse l’iniziativa di qualche misterioso soggetto diverso dal governo, in un Paese dove le autorità, applicando la tecnologia, controllano ogni cosa. Ma sulla mancata firma del trattato internazionale non ha risposto.
Come possiamo fare – ho ancora chiesto – un accordo con la Cina che proprio in questi mesi sta clamorosamente violando la dichiarazione di Londra in cui si era impegnata a preservare il sistema di garanzie e diritti di Hong Kong almeno fino al 2047? Per l’ambasciatore la famigerata legge sulla sicurezza di Hong Kong è sacrosanta perché approvata dall’Assemblea nazionale di Pechino la quale avrebbe piena sovranità anche su Hong Kong, dimostrando di non fare alcun conto della dichiarazione di Londra. Si è spinto anche a difendere la legge elettorale che in pratica mette fuori gioco qualunque opposizione con l’argomento che è perfettamente logico richiedere a chi rappresenta un Paese di amarlo e amare le sue leggi.
Certo, non possiamo stupirci che il rappresentante di un regime dittatoriale usi argomenti totalitari, ma è stato stupefacente il modo in cui il rappresentante dell’Unione europea nelle trattative ha risposto alla mia domanda su quale mai possa essere la convenienza nel facilitare gli investimenti europei in Cina, che comportano la delocalizzazione di tantissimi posti di lavoro. Ebbene, Carlo Pettinato ha detto che gli investimenti fanno crescere l’economia cinese e più cresce più i cinesi potranno comprare i nostri prodotti. Poi, l’argomento finale: “Se non fosse conveniente, non avremmo portato avanti la trattativa”.
Insomma, i dubbi sul Cai sono molto pesanti. Anche perché, mentre noi europei destiniamo decine e decine di miliardi alla riduzione delle emissioni di anidride carbonica, rendendoci, almeno nell’immediato, meno competitivi, la Cina, grazie ai tanto celebrati e asimmetrici accordi di Parigi, può continuare ad aumentarle fino al 2030 e lo sta facendo, come lo stesso ambasciatore cinese ha confermato in una intervista di un mese fa al Manifesto. In sostanza, l’aumento di emissioni della Cina dal 2004 al 2017 è pari all’intera quota di emissioni dell’Unione europea, come dire che se anche fossimo, per assurdo, arrivati a zero emissioni, lo sforzo sarebbe stato del tutto vanificato dall’aumento cinese. Ma di chi stiamo facendo gli interessi?