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Orban bye bye. Perché c’è vita nel Ppe e sulla Cina… Parla De Meo (Fi)

Un addio doloroso, che però apre una nuova pagina. Salvatore De Meo, europarlamentare del Ppe fra le fila di Forza Italia, racconta le mosse dei popolari dopo il divorzio con Orban. Salvini? Alleati più a Roma che a Bruxelles. Ora una nuova strategia europea per la Cina

Circa un mese fa il Ppe ha approvato la modifica del regolamento interno, con 148 voti a favore su 180 voti espressi. Tale modifica, sostanziata nell’articolo 7, prevede la possibilità di espellere un’intera delegazione nazionale dal Gruppo, qualora il partito in questione non rispetti lo stato di Diritto. Abbiamo chiesto un commento a Salvatore De Meo, eurodeputato del Ppe fra le fila di Forza Italia.

De Meo, cosa ha comportato la fuoriuscita di Fidesz e perché questa modifica risultava così necessaria?

Il Ppe è il più grande gruppo politico a livello europeo e riunisce sotto un unico tetto numerose famiglie politiche e partiti provenienti da tutti i 27 Stati membri dell’Ue. Una famiglia così grande è necessariamente variegata, è normale che ci siano posizioni diverse. La delegazione di Forza Italia si è sempre battuta per l’unità di chi si riconosce nei valori del popolarismo europeo, lavorando con tedeschi, francesi e spagnoli a trovare soluzioni di compromesso, anche dal punto di vista delle regole comuni per la gestione dei lavori del Gruppo al Parlamento europeo. Purtroppo, negli ultimi anni, alcuni rapporti si sono deteriorati. Non è mai bello quando un partito nazionale lascia una realtà importante come la nostra, che è da sempre una forza inclusiva.

L’addio lascerà il segno?

Per usare le parole del capogruppo Manfred Weber, l’addio di Fidesz è stato “un giorno triste”. Oggi dobbiamo guardare avanti: dai vaccini alla tutela del Made In, dal Recovery alla digitalizzazione, abbiamo tante sfide da affrontare insieme. Il Ppe vuole continuare ad essere il motore del cambiamento dell’Unione, il partito amico delle famiglie, delle imprese, dei liberi professionisti e degli agricoltori. Stiamo tutti lavorando per fare in modo che le fasce più colpite dalla crisi abbiano gli strumenti per una ripresa rapida.

Mentre il segretario del Pd, Enrico Letta, auspica l’ingresso della Lega nel Ppe, alludendo a una svolta europeista di Salvini, il leader del Carroccio replica che un potenziale accordo con i popolari europei non è all’ordine del giorno. Cosa succederà nel caso in cui la Lega decidesse di dar vita ad un nuovo gruppo politico con Orbàn e i sovranisti polacchi? Ci sarebbero delle ripercussioni sul cdx italiano?

La forza della coalizione di centro-destra è anche data dalla diversità di posizioni. Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia hanno riferimenti diversi in Europa. Ma questo è un elemento che ci arricchisce e ci aiuta a preparare il futuro governo insieme: governiamo moltissimi comuni e 15 regioni su 20, risultanti raggiunti grazie anche a identità e sensibilità diverse. Noi siamo la componente moderata, liberale ed europeista indispensabile perché esista il centrodestra. Io ritengo positive le recenti posizioni della Lega e spero che, unitamente al governo Draghi, si possano comunque creare le condizioni per un peso maggiore della componente italiana dell’Eurocamera.

Nell’ultimo Consiglio europeo l’Alto rappresentante Josep Borrell, ha presentato una relazione sulla Turchia, la quale ha aperto un dialogo sul fenomeno migratorio, ma ha abbandonato la Convenzione di Istanbul. Lo scorso anno, il parlamento ungherese non ha ratificato la CDI e la Polonia minaccia di uscirne al più presto. L’Unione Europea ha il dovere di intervenire? Come?

Un terzo delle donne nell’Unione Europea ha subito forme di violenza fisica o abuso sessuale all’età di 15 anni. Con questo dato allarmante alla mano, mi sembra ovvio che non si tratti di un problema nazionale, ma che l’eliminazione della violenza sulle donne sia un obiettivo meglio raggiungibile con una comune azione europea. La Convenzione di Istanbul era, ed è ancora, un passo importantissimo per coinvolgere tutti i Paesi appartenenti al Consiglio d’Europa in un dialogo, garantendo gli stessi livelli di protezione e di diritti per le donne e le vittime di violenza. La ratifica dei trattati internazionali rimane una prerogativa di ciascuno Stato membro, ma non è un segreto che a livello europeo potrebbe lanciare un forte segnale a quei Paesi che ancora esitano. Il dialogo aperto con la Turchia sul tema migrazione è certamente positivo, ma non può essere “merce di scambio”.

Qual è l’atteggiamento del Ppe nei confronti dell’espansionismo economico cinese?

Proprio nelle ultime settimane, il Gruppo del Ppe ha discusso e approvato un documento sulle relazioni Ue-Cina basato su questi principi: cooperare dove possibile, competere dove necessario, senza temere un confronto. Ma dobbiamo essere concreti. Non vogliamo e non possiamo isolare la Cina, ma dobbiamo avere dei punti fermi, a partire dai nostri valori fondamentali: diritti umani, tutela dell’ambiente, reciprocità. Su questo non esistono mediazioni e ci sono molte questioni aperte: dalla vicenda degli Uiguri alla questione tibetana, dall’oppressione politica ad Hong Kong alle manovre militari a Taiwan. Abbiamo chiesto un’indagine internazionale indipendente sulla violazione sistematica dei diritti umani. A questo si aggiunge un’altra preoccupazione.

Cioè?

La rivalità economica. Basti pensare all’impossibilità per le aziende europee di partecipare ad appalti pubblici in Cina. Non solo. Lo scorso novembre, il nostro Copasir ha approvato una relazione che mette in guardia dalla penetrazione di capitali cinesi nel tessuto economico italiano. In Italia, infatti, gli investimenti cinesi sono decuplicati negli ultimi anni (un terzo solo nel manifatturiero). È un fenomeno che riguarda tutta l’Europa: i cinesi hanno acquistato il porto di Duisburg in Germania, quello del Pireo in Grecia. E va anche oltre i confini dell’Ue. Il recente attentato in Congo ha fatto riemergere il tema della presenza cinese in quel Continente, ricco di risorse naturali, dove la Cina la fa da padrona, oltretutto opponendosi a qualsiasi forma di cooperazione con l’Unione africana e i Paesi africani in materia di accesso alle materie prime, sfruttamento di nuovi mercati, diritti umani, questioni ambientali e climatiche.

L’Europa ha bisogno di cambiare. È in corso la discussione sull’opportunità di un ripristino del patto di stabilità e di alcune regole fiscali (divieto di aiuti di Stato) temporaneamente sospese causa pandemia. Qual è la posizione del suo partito in merito?

È ormai un anno che il Patto di Stabilità e Crescita è stato sospeso dalla Commissione Europea per dare la possibilità ai governi di combattere le conseguenze economiche della pandemia. Ad inizio marzo, la Commissione ha stabilito i criteri che utilizzerà per decidere quando il Patto di Stabilità rientrerà in vigore, ma per la decisione ufficiale dovremo aspettare le previsioni economiche di maggio. Come auspicato da Forza Italia, che ha sempre sottolineato le criticità ed i limiti del Patto, sembra ormai certo che il ripristino non avverrà prima del 2022. Ad ogni modo, secondo noi, tutte le decisioni vanno subordinate alla ripresa economica.

Già, la ripresa. Ma intanto in Europa c’è chi vuole rivedere il Patto di Stabilità.

Il Patto di Stabilità va riformato, come già richiesto da Italia e Francia prima dello scoppio della pandemia. Questa revisione deve essere parte di una riforma più ampia di tutti gli strumenti di governance macroeconomica: il two pack, six pack, le regole che disciplinano il settore bancario, quelle sugli NPL. Sono regole ormai datate. Dobbiamo dare continuità alla svolta dell’ultimo anno, cercando anzi un’accelerazione. Insomma, se siamo passati dall’Europa dell’austerità a quella della solidarietà, non può essere solo per le misure di emergenza, ma è un cambiamento che deve continuare in futuro. Da parte nostra, il Parlamento ha già votato più volte per chiedere che il fondo SURE, che sostiene cassa integrazione e riqualificazione professionale, continui nel tempo e non sia “una tantum”. Lo dimostra anche il grande successo ottenuto dalle aste per i bond che lo finanziano. Sono certo che sarà lo stesso per quelle che finanzieranno il Recovery. È tempo di cambiare: se una formula è vincente, dobbiamo usarla sempre.



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