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Lo stipendio di Andrea Orcel in Unicredit scatena i proxy advisor

Di Andrea Calef e Andrea Roncella

Il compenso da 7,5 milioni per il nuovo amministratore delegato di Unicredit è finito sotto attacco di un proxy advisor. Ma anche nell’azione di queste società possono sorgere dei “problemi di agenzia”: quali interessi sono davvero tutelati? Questioni aperte sulla corporate governance, tra retribuzione e reputazione, analizzate da Andrea Calef e Andrea Roncella, della Scuola Politica “Vivere nella Comunità”

Il Financial Times ha pubblicato un articolo che riportava alcuni stralci del report scritto da Glass Lewis, un proxy advisor, riguardante la remunerazione dell’amministratore delegato designato del gruppo bancario Unicredit, Andrea Orcel, sconsigliando agli azionisti della banca di approvare il piano di remunerazione, proposto dal Consiglio di Amministrazione, in sede assembleare.

L’attuale piano prevede nel 2021 un salario fisso base di 2,5 milioni di euro con un bonus azionario di 5 milioni di euro (il 200% della paga base), scollegato dai risultati finanziari della banca, mentre dall’anno successivo una parte (non ancora nota) del compenso del nuovo amministratore delegato sarà basata sulla performance della banca.

Le polemiche risultanti la pubblicazione di questo report sono ormai ben note, ma questo caso eclatante può essere un’occasione per riflettere sui temi della corporate governance e, più specificamente, della retribuzione aziendale.

IL RAPPORTO PRINCIPALE-AGENTE

È un tema assai dibattuto dagli accademici da decenni, il cui interesse non accenna a scemare. Ciò dipende dal fatto che la retribuzione mira a risolvere un classico e vetusto problema di microeconomia: il problema di agenzia. Gli azionisti (principale) demandano la gestione dell’azienda all’amministratore delegato (agente), aspettandosi da quest’ultimo una sana e prudente, nonché profittevole gestione dell’azienda. Purtroppo, gli interessi degli amministratori sono sovente differenti da quelli degli azionisti, i quali talvolta sono dimensionalmente minuscoli – “polverizzati” (è il caso delle public companies) – ed effettivamente non possono incidere molto sulle scelte aziendali. Per tal ragione, cercando di mettere in pratica la “teoria degli incentivi”, molti studiosi hanno fornito suggerimenti per allineare gli incentivi degli amministratori a quelli degli azionisti.

Ciò che sorprende del “caso Orcel” non è tanto il valore assoluto della retribuzione (7.5 milioni di euro), poiché è ragionevole offrire una somma competitiva per attrarre i migliori talenti – Orcel è considerato uno dei più grandi esperti di M&A in ambito bancario – alla guida di un’azienda, quanto il fatto che la strutturazione della retribuzione non rispetti le migliori pratiche, poiché rende la componente variabile della retribuzione del tutto indipendente dai risultati della gestione della banca, di fatto una componente fissa aggiuntiva.

La retribuzione, in questo caso, non è un incentivo a perseguire una gestione ottimale della banca, benché, a prescindere dalla parte meramente economica, resti l’incentivo reputazionale. Per dirla con Jensen e Murphy, il problema non è tanto l’ammontare (il quanto) della retribuzione ma la sua sensitivity (il come), ovvero il tipo di incentivi che essa fornisce. Concentrarsi sulla sensitivity ci permette di capire quanto della retribuzione è corrisposta in azioni ed opzioni (che sono, appunto, sensibili al valore dell’impresa) invece che in salario cash, che lo è meno.

La teoria vuole che un maggiore corrispettivo in azioni ed opzioni allinei il CEO con gli azionisti e quindi fornisca incentivi superiori. A dispetto della teoria, però, l’evidenza sembra suggerirci la necessità di un ulteriore approfondimento. Di tutte le banche, Lehman Brothers era quella il cui schema di retribuzione meglio rispondeva a questo principio. Nonostante ciò, i risultati ottenuti sono stati tutt’altro che incoraggianti (Fahlenbrach et al., 2011).

Come sottolineato a più riprese infatti, il rischio dietro una retribuzione legata al valore azionario consiste nel focalizzarsi sul prezzo di breve termine a spese della creazione di valore a lungo termine (Edmans et al., 2017). Questo si traduce in scelte dannose come ad esempio, per riprendere il caso di Lehman, quella di investire in mutui subprime e rivenderli prima che diventino insolubili. La radice del problema di “short-termism” non è tanto nell’ammontare di azioni od opzioni corrisposte al CEO ma l’orizzonte di maturazione delle stesse e quindi se esse allinenano il CEO con il valore degli azionisti del breve o del lungo periodo. Oltre alla sensitivity è fondamentale capire quindi la struttura della retribuzione.

Guardando, invece, il lato azionisti, dopo l’approvazione della Legge Amato/Carli nel 1990, la conseguente privatizzazione delle banche, prima appartenti all’IRI ed una serie di fusioni ed acquisizioni, l’attuale Unicredit Group S.p.A è diventata una banca sistemica a livello europeo, dotata di un azionariato assai diffuso.

Data la struttura azionaria, i singoli azionisti hanno un impatto trascurabile sull’esito di una qualunque assemblea degli azionisti, a meno di un improbabile coordinamento dei propri voti. Questo “evento improbabile” sta realizzandosi molto più frequentemente negli ultimi anni a causa di tumultuoso sviluppo del mercato dei cosiddetti “proxy advisor”.

Il proxy advisor è una società che offre servizi di consulenza riguardanti temi di governance societaria e strategie di retribuzione dei top manager di società quotate ad investitori istituzionali. Il proxy advisor menzionato ad inizio articolo, Glass Lewis, controlla circa il 37% del mercato dei servizi di proxy advisory. Benché sorta come azienda americana, attraverso delle acquisizioni mirate in Germania ed Australia, è assurta a compagnia globale. Attualmente è controllata congiuntamente per l’80% da un fondo pensione (Ontario teachers’ Pension Plan) e per il restante 20% da un’azienda di investment management (Alberta Investment Management Corp.).

I proxy advisor offrono un servizio assai utile per aumentare il grado di informazione dei partecipanti del mercato (in questo caso gli azionisti), rendendo più efficace il loro ruolo, aumentando l’efficienza del mercato. Tuttavia, essendo il mercato dei proxy advisor assai concentrato, gli azionisti fruitori di questi servizi possono servirsi della consulenza solo scegliendo tra pochi attori, aventi quindi un potere contrattuale più forte.

Con una struttura di mercato del genere, lo stesso proxy advisor, che potrebbe avere degli interessi non necessariamente allineati (o persino un conflitto di interessi) a quelli dei propri clienti (gli azionisti di società, i cui reports sono redatti dal proxy advisor), potrebbe vanificare gli aspetti positivi prospettati poc’anzi. Chi potrebbe beneficiare di ciò? Il proxy advisor stesso o gli azionisti di quest’ultimo, applicando nuovamente il problema di agenzia. Nel caso di Glass Lewis, duopolista insieme ad ISS in questo mercato, gli azionisti sono due: un fondo pensione (per definizione, un investitore istituzionale) ed una società di investimenti.

Come si evince da questa riflessione, temi assai rilevanti come la corporate governance, la retribuzione aziendale, le informazioni disponibili ai partecipanti del mercato e l’efficienza del mercato sono collegati tra loro e influenzati da questioni meno evidenti, come i cosiddetti “problemi di agenzia”, che a loro volta, come abbiamo visto, possono essere concatenati e dipendenti dalla struttura di altri mercati.



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