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L’impatto del Covid e la spinta digitale sulle piccole e medie imprese

I risultati della ricerca di Banca Ifis che, tramite il suo Ufficio Studi, ha preso in considerazione 82 mila piccole e medie imprese italiane appartenenti a nove settori produttivi. Analisi quantitativa ma anche qualitativa dalla quale emerge una panoramica di rinnovati modelli di business e la forza della comunicazione con i clienti

A dicembre 2020 Banca Ifis, con il suo Ufficio Studi, ha analizzato 82mila bilanci di altrettante piccole e medie imprese appartenenti a nove settori produttivi: agroalimentare, automotive, chimica & farmaceutica, costruzioni, logistica & trasporti, meccanica, moda, sistema casa, tecnologia.

A questa analisi quantitativa la Banca ha sommato un’analisi qualitativa riguardante voci e opinioni degli imprenditori da un lato (257 questionari + 20 interviste su un gruppo significativo di Pmi) e l’ascolto di quasi 1 milione di conversazioni social (Linkedin escluso), blog, forum e commenti su testate giornalistiche di oltre 510 mila autori unici (utenti rappresentativi e qualificati) intercettati sul web grazie all’osservatorio di nuova generazione di Banca Ifis basato sul web listening dall’altro.

LE LINEE GUIDA DEL CAMBIAMENTO

La crisi dovuta al Covid-19 e i cambiamenti di mercato che ne sono derivati hanno portato le piccole e medie imprese italiane ad avviare un percorso di rinnovamento dei modelli di business che ha trovato nell’ascolto del cliente la sua forza propulsiva.

Da questo punto di vista, il 45% delle imprese ha puntato sulla servitization, ovvero nella trasformazione del prodotto in servizio o nell’arricchimento dello stesso con servizi pre e post-vendita. Questo per far fronte alla domanda di prodotti innovativi e personalizzati (che circa il 40% delle imprese intervistate ha indicato in crescita) e con una particolare attenzione alla sostenibilità.

La stessa relazione con il cliente, a seguito della pandemia da Covid-19, si è sempre più basata su comunicazione e interazione virtuali producendo un’accelerazione nell’utilizzo delle tecnologie digitali: in pochi mesi la penetrazione tra le Pmi è passata dal 45% di gennaio 2020 al 66% attuale, con un picco del 73% tra le piccole e medie imprese “top” che si confermano un’avanguardia nell’anticipare i trend.

L’approccio strategico delle piccole e medie imprese in questa fase di trasformazione è confermato anche dall’attenzione alla ricerca e sviluppo. Tra le Pmi che fanno ricerca, l’85% ha mantenuto o incrementato l’investimento al fine di sostenere la competitività anche nel medio-lungo periodo post-pandemia, con la finalità di esplorare nuovi mercati e offrire nuovi prodotti e servizi, spesso entrambe le cose allo stesso tempo (nel 41% dei casi tra le Pmi in crescita).

I TREND DEL FUTURO… ASCOLTATI SUL WEB

Una delle sfide manageriali per l’evoluzione dei modelli di business evinta dalle conversazioni online riguarda proprio il digitale. La tecnologia, stando alle discussioni, verrà sempre più utilizzata dalle Pmi per superare le barriere fisiche, offrire un’esperienza evoluta di prodotto/servizio e agevolare la personalizzazione di prodotto.

Banca Ifis ha inoltre intervistato nei primi mesi del 2021 un campione rappresentativo di 600 imprese sui temi del digitale, in particolare nell’uso dell’e-store per la vendita e dello smart working per l’organizzazione del lavoro ai tempi del Covid.

Le principali evidenze in tema di e-commerce riguardano innanzitutto il fatto che appena il 9% delle piccole e medie imprese italiane utilizza le piattaforme digitali per vendere i propri prodotti. Da questo punto di vista, i settori all’avanguardia sono tre: l’agroalimentare (19%), la moda (16%), la chimica farmaceutica (16%). Ma le percentuali, per ora esigue, sono in crescita per effetto della pandemia e delle sue restrizioni: il 26% di chi utilizza sistemi di vendita online, infatti, li ha adottati negli ultimi 12 mesi per continuare la propria attività distributiva mentre le misure di contenimento dei contagi impedivano l’apertura di uno store fisico.

A conferma di un fenomeno in crescita, il 35% del campione sta valutando l’apertura di una piattaforma di e-commerce nei prossimi 12 mesi. Tra queste aziende, il 6% ne reputa altamente probabile l’adozione entro il 2022. A queste si aggiunge un 2% di imprese che sta già lavorando allo sviluppo di un canale di vendita digitale. La decisione di avviare una piattaforma di vendita digitale viene motivata nel 57% dei casi dalla volontà di diversificare i canali di acquisto. La seconda ragione è per rispondere a una richiesta del mercato (53%).

FATTURATO E STRATEGIE DI E-COMMERCE

I ricavi dell’e-commerce valgono oggi circa il 9% del fatturato complessivo di una Pmi, un dato che per 6 imprese su 10 è in aumento rispetto a quello generato nel 2019. Il 75% dei ricavi proviene dal mercato domestico e il 32% da clienti business, a conferma del fatto che il commercio digitale può essere interessante anche in ottica B2B.

Inoltre, il 39% delle piccole e medie imprese che ha attivato un canale di vendita digitale ha investito nella formazione di risorse già interne all’azienda per gestirlo, una su cinque ha assunto personale ad hoc, mentre l’85% si è rivolta ad operatori specializzati per la gestione della logistica. Il 39% del campione ha scelto di affiancare a un proprio applicativo anche un marketplace esterno, nel 64% dei casi si tratta di Amazon, nel 22% di Alibaba.

Un ruolo cruciale viene ricoperto dalla sostenibilità ambientale, segnalata dal 63% delle Pmi come un punto di attenzione. Il 36% delle aziende ha ridotto la quantità di materiali impiegati destinati all’imballaggio, il 30% ha scelto packaging riciclati o riciclabili.

Ma quali sono le difficoltà che incontrano le aziende che investono sull’e-commerce? Due su tre lamentano problematiche legate all’aggiornamento dei sistemi informativi e della dotazione tecnologica. Per il 45% le difficoltà nascono dalla gestione del magazzino, il 42% fatica a formare il personale demandato a occuparsi del servizio, il 38% segnala problematiche nella certificazione della sicurezza dei pagamenti on line.

A frenare le imprese c’è tuttavia un’evidenza, l’80% non ritiene la vendita online il canale adatto per la propria offerta di prodotto. Infine, costituiscono un ostacolo anche le difficoltà logistiche (15%), i costi di implementazione elevati (9%) e la mancanza di competenze interne all’azienda (8%).

LE IMPLICAZIONI DELLO SMART WORKING NELLE PMI

Se prima del lockdown appena il 4,6% delle aziende con meno di 250 dipendenti consentiva il lavoro da remoto, durante l’emergenza questa percentuale è salita al 37%. Sul piano geografico, le imprese più reattive sono quelle del Nordovest, dove il 48,9% delle Pmi ha introdotto il lavoro agile per continuare a operare da remoto anche durante il lockdown. Più difficile, invece, la situazione al Sud e nelle isole, dove appena il 19% delle aziende con meno di 249 dipendenti ha attivato forme di home working.

Una soluzione che è stata più semplice da applicare per le aziende più grandi: vi ha fatto ricorso il 73,6% delle imprese con più di 50 addetti contro il 27,9% di quelle con un numero di dipendenti compreso tra 10 e 19. L’attivazione dello smart working ha richiesto un’accelerazione nell’utilizzo delle tecnologie digitali.

Il 70% delle aziende ha implementato piattaforme di videoconferenza e di messagistica per permettere ai propri dipendenti di operare in gruppo. Per la stessa ragione, il 63,9% ha fatto ricorso a servizi per l’interscambio di file e di documenti. Il 73,9% delle Pmi ha fornito ai propri dipendenti strumenti per la produttività individuale (computer, tablet o smartphone) mentre il 20,5% delle realtà che hanno preso parte alla survey ha partecipato, in tutto o in parte, alle spese sostenute dal personale in lavoro da remoto per connettersi alla rete.

Alcune piccole e medie imprese hanno inoltre fornito elementi di arredo ai collaboratori che lavoravano dalla propria abitazione. Nonostante la sostanziale adesione alle nuove pratiche di smart working, rimane presente il desiderio delle imprese di tornare almeno in parte alle abitudini precedenti.

Anche perché, nel 28% dei casi si segnala come la coesione del gruppo di lavoro sia diminuita a causa dell’introduzione dello smart working. E così, il 62% delle Pmi manterrà la possibilità per i propri dipendenti di operare da remoto, ma il 45% ridurrà l’intensità con cui sarà consentito ricorrere a questa soluzione. Per il 91% delle aziende con meno di 250 dipendenti resta centrale il ruolo dell’ufficio per lo svolgimento delle attività lavorative.

Lo scenario che si va prefigurando guarda a modelli di lavoro dove alla presenza in sede si affianca la possibilità, e la flessibilità, di lavorare da casa.

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