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Come formare la classe dirigente. Pennisi apre il dibattito

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Il problema della formazione delle classi dirigenti non dipende solo dalle scuole di politica, sempre meno incisive e presenti. Ma anche da una mancata attenzione verso la scuola che non offre più le basi su cui costruire poi una ulteriore preparazione

Il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, ha correttamente posto come tema centrale dell’azione politica quello della formazione della classe dirigente. Abbiamo quasi ogni giorno esempi di prese di posizioni che mostrano mancanza di spessore culturale e di competenza tecnica (senza il primo la seconda cade comunque nel vuoto) da parte di esponenti dei piani alti della politica. Un tempo, la sinistra aveva una propria scuola di formazione (le celebri “Frattocchie”): il centrosinistra non ne ha mai avute anche in quanto formato da coalizioni tanto vaste quanto estemporanee e, quindi, fragili. Nel centrodestra, per oltre un decennio, la Fondazione Ideazione ha svolto questo ruolo; le è succeduta la Fondazione Magna Carta. Oggi è principalmente, la Fondazione Fare Futuro ad avere un attivo programma settimanale di formazione che, a ragione della pandemia, si svolge online.

Il problema non è solo italiano. Una quindicina di anni fa, Andrea Mattozzi (del California Institute of Technology) e Antonio Merlo (della University of Pennsylvania), hanno elaborato, sulla base di un’analisi internazionale ma guardando specialmente al caso Italia, una teoria sui metodi di reclutamento nei partiti politici tradizionali – “Mediocracy” (“Mediocrazia – Ossia il potere dei mediocri”) NBER Working Paper No. W12920. I partiti sono in concorrenza con le lobby dell’industria, della finanza, del commercio e via discorrendo per reclutare dirigenti, quadri e personale con profili analoghi. Anche ove i partiti potessero avere la prima di scelta (le lobby pagano di più ed offrono carriere più stabili), decidono di reclutare i mediocri al fine di evitare che i loro leader siano minacciati, o meglio insidiati, dall’interno.

Secondo Francisco J. Gomes (London Business School), Laurence Klotikoff (Boston University) e Luis M. Viceira (Harvard Business School) ciò è all’origine del fenomeno che denominano “The Excess Burden of Government Indecision” (“Il peso eccessivo dell’indecisione dei governi”) pubblicato come NBER Working Paper No. W12859. La mediocrità ha come conseguenza la tendenza a procrastinare quando si devono dare soluzioni a problemi di politica pubblica. Ciò genera un onere molto forte sulla collettività. Il lavoro contiene simulazione econometriche e scenari controfattuali di un tema di politica pubblica Usa, che possono applicarsi anche all’Italia.

Nei giorni scorsi, il tema è stato affrontato con acume da alcuni articoli di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera. Ha giustamente sottolineato che il problema è molto più profondo: parte della scuola, specialmente dalla scarsa attenzione che insegnanti spesso distratti danno a materie come la storia, studio essenziale (lo scriveva anche Gramsci al proprio figlio nelle ultime “lettere dal carcere”) per collocare del contesto corretto la proposta e l’azione politica. In breve, le “scuole di formazione politica” promosse da partiti e movimenti se “il materiale” che le frequenta è privo di quelle che, quando andavo al liceo, si chiamavano “le basi”.

Il dibattito non è solo italiano. Gli studi sulla “mediocrazia” hanno origine negli Stati Uniti, anche se i migliori sono stati fatti da accademici italiani che risiedono negli Usa. In America, il dibattito su questi temi è diventato molto vivace soprattutto da quando una visione del politically correct sta portando alla distruzione di statue di “Padri della Patria” per “reati” che avrebbero commesso contro quella che ora è la morale corrente ed al tentativo di cancellare parte della storia degli Stati Uniti.

Giustamente non riguarda unicamente lo studio della storia ma anche e soprattutto quello dei classici, e di lingue ora “morte”, come il latino, il greco e l’antico ebreo per accedervi. Tra i tanti, faccio riferimento ad un bel saggio di Rachel Poser sulla New York Review of Books ed ad uno di Sarah Ruden su National Review, due testate di orientamenti contrapposti ma che giungono alle stesse conclusioni e che fanno ambedue riferimento al fatto che i Puritani fondarono l’Università di Harvard perché insegnasse i classici. Non più di un quarto di secolo fa, un uomo politico italiano (soprannominato il ministro dell’Armonia) amava ripetere: chi non ha letto le tragedie greche in greco, conosce poco dell’animo umano e ancor meno della politica. Un ministro delle Finanze degli anni Ottanta, quando in Consiglio dei ministri le discussioni diventavano di lana caprina e si smarriva il contesto, tirava fuori dalla tasca delle giaccia un libro di filosofia in greco od in tedesco e faceva sfoggio di leggerlo mentre i colleghi si accapigliavano.

Infine, negli anni Settanta, il presidente del Senegal e Premio Nobel della Letteratura, Léopold Senghor, ad una delegazione di Unesco e Banca Mondiale che proponevano una riforma della scuola che privilegiasse le materie pratiche, e mandasse in soffitta il liceo classico (dove si insegnava il latino ed il greco), disse tecnologia non vuole dire questo (e fece il gesto di svitare una lampadina) avere basi solide su cui innestare lo studio della tecnologia.

Il tema è vasto e cruciale. Auspico un dibattito a più voci su questa testata.

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