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Il virus ha colpito i giornalisti italiani (e l’Ue). Razzante su Big Tech, informazione e politica

Censurare Trump è sbagliato: le piattaforme devono controllare la disinformazione ma non orientare il dibattito politico. La ricetta per un uso corretto dei social? L’autodisciplina degli utenti, attraverso ordini professionali e codici deontologici. I media italiani, preziosi durante la prima ondata, negli ultimi mesi non hanno dato una grande prova di giornalismo. Conversazione con Ruben Razzante

Mentre la “Cassazione” di Facebook si appresta a decidere la sorte del profilo di Donald Trump, abbiamo contattato Ruben Razzante per parlare di libertà di espressione online, disinformazione e doveri degli utenti. Professore di diritto dell’informazione alla Cattolica di Milano, alla Lumsa e alla Pontificia Università della Santa Croce, Razzante ha da poco pubblicato “La Rete che vorrei” (FrancoAngeli editore) ed è uno degli esperti chiamati dal governo nell’Unità di monitoraggio per il contrasto della diffusione di fake news sul Covid-19.

Cominciamo proprio dall’ex presidente americano. È d’accordo sul chiudere tutti i suoi profili social?

No, credo che Trump sia stato ingiustamente censurato. Parlo dal punto di vista giuridico, non politico. Facebook, Twitter e Youtube hanno esercitato una forzatura. Anche perché mancano meccanismi chiari di definizione delle responsabilità. Le Big Tech dicono di non essere editori, e non rispondono dei contenuti pubblicati dagli utenti? Allora non devono neanche censurare un presidente in carica. Detto questo, se anche dovesse vincere il suo ricorso dubito che ciò possa cambiare il corso della storia. La rete consuma in fretta i personaggi, accelera le transizioni. Più uno occupa la scena e prima perde appeal.

Se la censura di Trump è sbagliata, online si può scrivere di tutto?

Certo che no. Credo che alcuni contenuti possano essere rimossi, ma si tratta di messaggi estremi, dal negazionismo sull’Olocausto e sulle foibe alle falsità sul Covid-19 che possono indurre milioni di persone a comportamenti sbagliati e soprattutto nocivi per la società. Però la libertà di espressione deve restare il principio cardine, e vi si può derogare in un numero limitato di casi.

La pandemia è un caso eccezionale?

In quest’anno abbiamo visto la sospensione di molte libertà democratiche in nome della salute pubblica, dunque capisco una mano più pesante nel censurare il negazionismo spinto che danneggia, disorienta, disinforma. L’unità di monitoraggio di cui faccio parte ha sostenuto questo meccanismo: rendere più facilmente raggiungibili i contenuti scientifici e meno raggiungibili quelli non riconosciuti dalla scienza.

Esiste un modo per bilanciare libertà e contenuti “tossici”?

Sì, e si chiama autodisciplina. Gli utenti devono capire che molto dipende da loro, che una cosa è il diritto di parola e un’altra l’anarchia comportamentale. In Italia, ad esempio, un ruolo fondamentale possono svolgerlo le singole categorie.

In effetti buona parte degli italiani, tra ordini professionali, albi, o appartenenza alla pubblica amministrazione, è vincolata da codici deontologici.

Esatto. A partire dai giornalisti, ciascun settore deve proteggere la propria reputazione. Se medici, magistrati, professori universitari si mettono a sproloquiare sui social, non viene screditato solo l’autore, ma tutta la categoria.

Così, invece di creare una legge valida per tutti che sarebbe di difficile attuazione, si può contare su un sistema diffuso di controllo sui contenuti, che può funzionare caso per caso e in base al ruolo. 

Il problema della disinformazione online è che servirebbero criteri giuridici internazionali, o meglio, sovranazionali. Al momento, vigono le policies che alcune piattaforme private si sono date, ma alcune sono troppo lasche (come nel caso di Parler), altre troppo restrittive. Dovrebbero dotarsi di statuti certificati e validi a livello internazionale, in cui stabiliscono con chiarezza cosa si può pubblicare. Oppure siamo davanti a un new deal, un diverso regime dell’ecosistema digitale in cui non sono più megafoni di opinioni, ma co-relatori, co-produttori di contenuti che selezionano, vagliano, giudicano. La pandemia forse può diventare una tragica occasione per mettere mano al regime giuridico di Big Tech.

Però resta sempre la questione dell’enforcement: se anche ci fossero, come si possono far rispettare delle regole “globali”?

Ruben Razzante

Trovo interessante la proposta del professor Pitruzzella, ex presidente dell’Antitrust, di creare una rete di authorities nazionali coordinate e con procedure omogenee, al fine di esercitare un controllo uniforme. Non bisogna mettere le briglie alla rete, le piattaforme sono private e godono di ampia libertà di impresa, ma si occupano del bene pubblico più prezioso, l’informazione. Una “materia prima” che attiene alla realizzazione dell’individuo e alla stabilità delle democrazie, non possiamo permettere che viga l’anomia, la mancanza di regole oltre a quelle stabilite dalle singole corporation.

Le mosse dell’Unione europea, come il Digital Services Act e Digital Markets Act, sono convincenti?

Sono fiducioso, Usa e Ue stanno creando nuovi meccanismi di responsabilità. Sul fronte della privacy e del copyright ci sono già norme più chiare. Sulle fake news non serve una direttiva o un regolamento, il Codice di buone pratiche sulla disinformazione varato nel 2018 è uno strumento sufficiente. Sono però preoccupato dall’indebolimento europeo su altri fronti. L’Unione non è compatta nell’approccio alle grandi piattaforme. Se la Spagna fa un accordo con Google, la Germania crea un comitato ministeriale per il controllo dei contenuti web, l’authority irlandese per la privacy si mette a sfidare da sola la Silicon Valley, e ogni paese applica un regime fiscale diverso…

Ognuno va per conto suo.

Uno sfarinamento che indebolisce la capacità negoziale dell’Unione. Ed è un peccato perché ora non c’è più una giungla, le Big Tech da una parte hanno capito di avere dei limiti, dall’altra hanno visto riconosciuta la loro utilità sociale: durante la pandemia sono state un collante, anche per chi fino a quel momento non aveva mai usato la rete per restare in contatto con i propri cari, milioni di persone che da un mese all’altro sono sbarcate sulle piattaforme online.

Per concludere, come vede la situazione della disinformazione in Italia rispetto agli altri Paesi?

Non credo che siamo messi meglio o peggio di altri. È un problema globale e spesso le grandi campagne partono dall’estero. Ma su una cosa siamo un po’ la pecora nera: nella copertura mediatica del Covid-19.

Cosa intende?

Nella prima ondata, fino a maggio dell’anno scorso, i giornalisti hanno avuto un ruolo prezioso di testimonianza dai luoghi del contagio. Ma nella seconda e terza ondata siamo stati travolti dal sensazionalismo, dalla sovraesposizione degli scienziati che hanno finito per sostituire la verifica delle fonti. In tv, online e sui quotidiani, bastava avere il virologo di turno e il tema era (pigramente) coperto. Forse anche per stress e stanchezza della categoria, è andata a rotoli la scommessa di un’informazione di qualità. Su plasma, monoclonali, medici che curano a casa, quali farmaci usare in quali stadi dei sintomi, ho visto molta confusione e poco lavoro giornalistico originale. D’altronde basta aprire i siti tedeschi, francesi e inglesi. Da noi le prime 20 notizie sono sul Covid, da loro ne trovi 2-3 al giorno.


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