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Si riparte, ma non tutti allo stesso modo. Scandizzo e l’economia post-Covid

Le azioni di Biden indicano una svolta risoluta nella politica economica nella direzione degli investimenti pubblici che va ben al di là, per scala e scopo, del mix di politiche di breve e lungo termine che ancora caratterizzano l’Europa, ma anche altri paesi quali il Regno Unito e l’Australia. L’analisi di Pasquale Lucio Scandizzo, economista del Gruppo dei 20 (Tor Vergata)

L’economia mondiale è in stato di shock ed è molto difficile prevedere anche le linee generali della ripresa che ci sarà, e delle ulteriori crisi che potrebbero affacciarsi sulla scena per metterla a repentaglio. Non vi sono evidenze quantitative di simili avvenimenti storici, tranne che per le narrative della peste nera o della spagnola, che comunque non sono paragonabili alle vicende attuali se non in minima parte. Gli esempi storici documentati più simili sono le due guerre mondiali, con il nemico nella veste del virus, o viceversa, anche se vi sono profonde differenze economiche tra le due situazioni. Alcune di queste differenze andrebbero valutate perché possono essere determinanti.

Anzitutto, la crisi del Covid è stata uno shock negativo di offerta e, quasi simultaneamente di domanda, secondo un modello non paragonabile a quello del conflitto mondiale che, se pur in modi diversi, combinava shock positivi e negativi di domanda e di offerta. Una delle maggiori differenze è stato l’impatto sull’occupazione, del tutto diverso nel caso di una guerra e particolarmente preoccupante nella situazione attuale. Ma anche l’effetto sugli asset è totalmente diverso, perché la guerra li distruggeva, mentre il Covid, in presenza di un’offerta monetaria crescente, li crea dal nulla, sopravvalutandoli in modo imprevedibile e preoccupante.

Altra differenza, forse ancora più profonda, è l’impatto duale (il c.d. decoupling) sull’economia, con molti  settori di servizi, dalla cultura al turismo, ma anche del commercio e della vendita al dettaglio, colpiti a morte e altri invece non toccati o addirittura avvantaggiati dalla crisi.  Allo stesso modo, assistiamo in tutto il mondo al decoupling drammatico tra i ricchi, che non solo non soffrono della crisi, ma vedono il valore dei  loro asset crescere a dismisura in mercati finanziari sempre più esuberanti, e i poveri che subiscono le conseguenze della disoccupazione e della crisi delle piccole e medie imprese, anch’esse più colpite dagli effetti primari e secondari della crisi.

In queste condizioni la caduta della domanda, inoltre, implica un accumulazione senza precedenti di risparmi da parte dei consumatori in lockdown e una perdita egualmente senza precedenti di incassi dai loro mancati fornitori. Questo effetto, che comporta un incremento dello stock di risparmi da un lato e della povertà dall’altro, è equivalente a un massiccio trasferimento di ricchezza. A parte la sua iniquità, è difficile darne una interpretazione economica e prevedere se, come e quando si potrà recuperare un equilibrio sostenibile tra patrimoni e redditi.  A livello globale, non si può non notare che nei paesi più sviluppati quasi un quarto delle famiglie appare alle prese con una tassa impropria che riduce i loro redditi e fa crescere la ricchezza del resto del resto della popolazione.

Per i paesi più poveri la situazione è meno chiara, ma la polarizzazione tra chi accumula risparmi astenendosi dai consumi nei lockdown e chi vede i propri redditi crollare è probabilmente ancora maggiore. Ma questa situazione, per molti versi paradossale, causa un ulteriore decoupling: quello tra capitale pubblico, per cui il processo di accumulazione, da tempo rallentato in modo preoccupante,  e capitali privati. Questo decoupling continua anche nel ruolo sempre maggiore che lo stato sta acquisendo nell’economia a causa della crisi in corso ed anzi si aggrava, a causa del peso crescente della componente congiunturale nelle politiche monetarie e fiscali.

Consideriamo queste politiche. In molti paesi, forme diverse di Quantitative Easing  hanno espanso la liquidità del sistema finanziario attraverso acquisti di titoli di Stato da parte delle banche centrali,  e, in molti casi anche  attraverso l’acquisto di obbligazioni societarie del settore privato. Questa grande espansione monetaria era forse inevitabile,  e ci ha salvati dalla depressione, ma non ha risolto alcun problema strutturale, e ha anzi aggravato il divario tra capitale pubblico e patrimoni privati. Essa ha inoltre implicazioni a lungo termine e crea diversi rischi macroeconomici futuri, tra cui quelli di un’improvvisa correzione dei prezzi degli asset gonfiati dal credito a tassi di interesse estremamente bassi e quelli di una stagione di inflazione esplosiva di beni e servizi con la ripresa dell’attività economica. Anche nell’ipotesi ottimistica che l’inflazione futura rimarrà molto bassa per un tempo indefinito, tuttavia, deve preoccuparci l’esplosione del debito, che invece verrebbe temperata da una maggiore inflazione.

Consideriamo ora le risposte fiscali. Nel giudicarle, è importante distinguere tra gli elementi che hanno la natura di stimolo fiscale e quelli sotto forma di sgravi  fiscali. Il significato dello stimolo è che esso corrisponde a un’azione di bilancio deliberata attraverso una spesa pubblica più elevata, tagli fiscali, sussidi o pagamenti di assistenza sociale più generosi per suscitare  (potremmo dire, risuscitare) attività economica. Lo stimolo fiscale è rivolto al lato della domanda dell’economia e dovrebbe funzionare aumentando la spesa totale per invertire una recessione imprevista.

Al contrario, lo sgravio fiscale è diretto principalmente al lato dell’offerta per stabilizzare la produzione attraverso agevolazioni fiscali, anche se le agevolazioni fiscali possono avere effetti secondari sulla domanda che portano a futuri guadagni della produzione. Caratterizzare la maggior parte delle risposte fiscali orientate alle imprese come conformi al paradigma “keynesiano” è fuorviante. C’è una chiara differenza tra la difesa keynesiana della spesa pubblica diretta e delle distribuzioni di potere d’acquisto immediato per stimolare la domanda aggregata nell’economia e le misure di sgravio fiscale per le imprese per contrastare un collasso aggregato dell’offerta, anche se con conseguenze positive sulla domanda.

Lo stimulus plan di Biden consiste in un pacchetto di interventi di 1900 miliardi di dollari. Esso si basa sull’estensione dell’assicurazione di disoccupazione di $ 300 a settimana fino al 6 settembre  e del credito d’imposta per i bambini per un anno. Inoltre investirà quasi 20 miliardi di dollari in vaccinazioni contro il Covid-19, 25 miliardi di dollari in noleggio e assistenza per i servizi pubblici e 350 miliardi di dollari in aiuti statali e locali. Biden ha inoltre proposto un piano di 2000 miliardi di dollari per i prossimi 8 anni per la revisione e il potenziamento delle infrastrutture della nazione, definendolo uno sforzo di trasformazione che potrebbe creare “l’economia più resiliente e innovativa del mondo”. Questo piano verrebbe inoltre esteso di altri 2 mila miliardi nei prossimi dieci anni per “ricostruire il capitalismo americano”  e sarebbe finanziato da incrementi della corporate tax.

Le azioni di Biden indicano quindi una svolta risoluta nella politica economica nella direzione degli investimenti pubblici che va ben al di là, per scala e scopo, del mix di politiche di breve e lungo termine che ancora caratterizzano l’Europa, ma anche altri paesi quali il Regno Unito e l’Australia.  Esse sono basate  sull’idea che la diminuzione dei servizi pubblici produttivi è l’elemento cruciale che spiega il declino generale della crescita della produttività e la tendenza alla stagnazione che ha interessato in tempi recenti molti paesi, tra cui gli Stati Uniti, di cui l’Italia è peraltro stata antesignana. Il piano Biden è quindi basato sull’idea, che l’Europa dovrebbe condividere, che solo un grande rilancio del capitale pubblico, ben al di là dei confini angusti del Pnrr, anche in forme multinazionali o transnazionali, può salvarci dalla stagnazione e rispondere a sfide globali quali il cambiamento climatico, le pandemie e i pervasivi rischi sistemici di un mondo sempre più iperconnesso.


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