Non è scontato che gli Usa riescano a coinvolgere i partner Nato e in particolare i principali Paesi europei in un’azione che abbia come ultimo destinatario il gigante cinese. L’analisi di Mario Mauro, già ministro della Difesa, fondatore del centro studi di relazioni internazionali Meseuro
Nelle ultime settimane, la tensione al confine tra Ucraina e Russia ha raggiunto livelli che non si vedevano dai tempi della crisi di Crimea del 2014. Il Cremlino ha infatti avviato delle esercitazioni militari terrestri vicino al confine con il Donbass, truppe per circa 100.000 uomini, cui vanno aggiunte le esercitazioni navali messe in atto dalla flotta di stanza a Sebastopoli, nel Mar Nero. La consistenza delle operazioni ha messo in allarme le potenze occidentali, tanto che il presidente statunitense Joe Biden ha prima ordinato, e poi annullato, il dispiegamento di due cacciatorpediniere nel tratto di mare sopracitato. Dopo il termine delle esercitazioni e il ritiro delle truppe, la situazione si è raffreddata, ma la questione Ucraina continua a tenere banco nei rapporti Stati Uniti-Russia, tanto che per il prossimo 14 giugno è stato convocato un vertice Nato, cui parteciperanno i capi di stato e di governo.
Non è la prima volta che la regione sud-orientale al confine tra Europa e Russia diventa teatro di confronto tra le parti. Storicamente, infatti, a seguito del crollo dell’Unione Sovietica, l’Ucraina ha assunto il ruolo di Stato-cuscinetto tra i due schieramenti. Per la Nato il Paese rappresenta oggigiorno un alleato, tanto che il governo ucraino ha manifestato l’intenzione di costruire due nuove stazioni navali con l’aiuto anglo-americano e il presidente Volodymyr Zelensky preme per un ingresso del proprio Paese nell’Organizzazione Atlantica, anche se prima che ciò accada la strada sembra essere ancora lunga.
Anche dal punto di vista russo l’Ucraina rappresenta un argine da interporre fra sé e il mondo occidentale, ma ha un valore strategico-politico maggiore rispetto alla controparte (come evidenziato, nel riferimento alle “linee rosse da non oltrepassare”, dal discorso annuale di Vladimir Putin all’Assemblea federale): infatti, se Kiev dovesse aderire alla Nato, Mosca si ritroverebbe circondata lungo tutto il confine occidentale. Per gli Stati Uniti, invece, il centro gravitazionale strategico in Europa dell’Est è rappresentato dalla Romania, dunque la posta in gioco ha una valenza leggermente inferiore, anche se chi controlla il Mar Nero controlla Balcani orientali, Caucaso e Anatolia, e chi comanda queste ultime due regioni ha come destino ineluttabile una proiezione sul Mar Caspio, ergo sull’Asia centrale.
Nel parlare di linee rosse da non oltrepassare, Putin ha fatto riferimento a Bielorussia e Crimea (a oggi vittima di una crisi idrica causata dal taglio degli approvvigionamenti deciso dalle autorità di Kiev), ma non ha sviluppato un nuovo concetto all’interno del pensiero strategicorusso, bensì si è limitato a fare riferimento alla dottrina Karaganov, poco nota, ma rilevante in termini di comprensione delle dinamiche geopolitiche dello spazio post sovietico, di cui uno dei pilastri è quello della difesa delle minoranze russe negli ex Paesi Urss. L’intervento armato-umanitario del 2014 in Crimea si muove proprio lungo questa direttiva, e si accompagna a un altro modus operandi che caratterizza, da poco meno di un decennio, il pensiero militare russo, contenuto nella cosiddetta dottrina Gerasimov, che fa della guerra asimmetrica (basta sul dominio delle informazioni, l’utilizzo della tecnologia, dell’elemento sorpresa e, in maniera massiccia, di forze paramilitari e reparti speciali) un proprio pilastro.
La Russia, come abbiamo visto, si ritrova in una situazione precaria, con il rischio di vedere ridotto il proprio spazio di influenza nel proprio giardino di casa, mentre, d’altro canto, allunga i suoi tentacoli sul Mediterraneo e nel Baltico, zone di tradizionale appannaggio dei membri europei della Nato. E i dilemmi per gli Stati Uniti e Biden spuntano proprio qui, cioè nel riuscire a conciliare i propri interessi con quelli dei Paesi europei. La Casa Bianca ha già imposto sanzioni al Cremlino per quanto riguarda le vicende della Crimea, ma esse rappresentano un’arma a doppio taglio. La questione che più di tutte tiene banco riguarda il Nord Stream 2, il gasdotto che collegherebbe Russia e Germania raddoppiando le forniture di gas per Berlino, aggirando però, nel suo percorso, una serie di paesi che vedrebbero così indebolito il proprio potere negoziale nei confronti di Mosca. Da questo punto di vista gli Stati Uniti hanno deciso, per ora, di non imporre nuove sanzioni a quelle già presenti, ma il tema sarà al centro del vertice di giugno.
Un altro grattacapo per l’amministrazione Biden è rappresentato dalla Turchia: a tutti gli effetti membro Nato, il Paese anatolico negli ultimi anni ha manifestato tendenze neo-imperialiste, assurgendo al ruolo di potenza regionale. Nel contenere la Russia, Ankara gioca un ruolo fondamentale per la sua posizione strategica: ha infatti siglato un accordo cooperazione in materia di difesa con Kiev e nelle ultime settimane ha mostrato l’intenzione di dare vita al progetto “Canale Istanbul”, che permetterebbe l’accesso al Mar Nero, con approvazione turca, alle navi militari di qualsiasi stato per un periodo di tempo potenzialmente illimitato, garantendo così agli Stati Uniti alla Nato una presenza costante nel cortile di casa russo. Anche in questo caso, qualora gli Stati Uniti dovessero dare il proprio beneplacito al progetto, il prezzo da pagare sarebbe alto, rappresentato, de facto, dalla disponibilità statunitense a chiudere un occhio sulle manovre turche in Libia, cosa che scontenterebbe, e non poco, Italia e Francia.
Oltre a ciò, bisogna ricordarsi del Pacific Pivot statunitense varato durante la seconda amministrazione Obama. Cosa significa ciò? Che in cima alla gerarchia degli interessi americani vi è la sfida con la Cina, dunque nella strategia win-hold-win cui in questo momento si avvicina maggiormente la struttura delle forze armate statunitensi (rispetto al win-win), la sfida con la Russia rimane in secondo piano, tanto è vero che Biden ha invitato Putin a un faccia a faccia da tenersi in estate in Europa in un Paese terzo.
Gli Stati Uniti, pur avendo ribadito che non accetteranno altre annessioni illegali di territorio ucraino da parte di Mosca, sanno che le forze di risposta rapida della Nato nell’Europa sud-orientale ammontano a circa 30 battaglioni, contro i 46 che potrebbe schierare il Cremlino. Ciò che, però, garantisce un vantaggio alla Russia è la capacità di spostare più rapidamente le proprie truppe rispetto alla Nato, vanificando dunque un intervento occidentale. Dunque, lo svantaggio sarebbe netto.
Nel vertice di giugno Biden potrebbe chiedere agli alleati europei un maggiore impegno, esortandoli a metter da parte le proprie controversie, ma allo stesso tempo potrebbe decidere di fare ricorso allo strumento delle sanzioni finanziarie, inferendo un duro colpo alla già provata economia russa e, soprattutto, agli interessi degli oligarchi su cui si basa il potere di Putin, come accaduto nella vicenda del Donbass, anche se si è trattato di una scelta inevitabile, arrivate al culmine delle provocazioni russe (interferenze nelle elezioni presidenziali, attacchi cyber, manovre al confine ucraino). Ciò che è certo, è che per la presidenza Biden non è un risultato scontato quello di poter coinvolgere i partner Nato e in particolare i principali Paesi europei in un’azione che abbia come destinatario ultimo il gigante cinese, mettendo, se non tra parentesi, comunque in una posizione defilata, i loro interessi regionali nello scacchiere euro-mediterraneo.